martedì 10 novembre 2015

Corriere 10.11.15
Il re complice dei Jihadisti
Francesco I, pur di ostacolare Carlo V appoggiò turchi e corsari barbareschi
di Paolo Mieli


All’inizio del Cinquecento, mentre l’Europa entrava nella fase culminante del Rinascimento, l’Africa settentrionale spagnola precipitò nel caos. E l’imperatore Carlo V si trovò ad affrontare un’emergenza musulmana che prese i volti del nuovo Barbarossa, il corsaro barbaresco Khareddin, e del suo braccio destro, un cristiano rinnegato, Aydin Rais, denominato Cacciadiavolo. Tra il 1520 e il 1529 Barbarossa, che aveva ereditato il soprannome da suo fratello Arudji morto in battaglia nel 1518 (l’appellativo Barbarossa era frutto di una contrazione tra Baba , padre, e Arudji), conquistò quasi tutti gli scali costieri tra Gibilterra e Tunisi e fece base ad Algeri. Divenne il padrone della costa settentrionale dell’Africa dove — scrive Ernle Bradford in L’ammiraglio del sultano. Vita e imprese del corsaro Barbarossa (Mursia) — emigrarono, dalla Spagna, circa 70 mila mori. Il 28 ottobre 1529, nel mare di Formentera, la sua flotta, capitanata da Cacciadiavolo, inflisse una memorabile sconfitta alle navi castigliane del capitano Portundo: solo una galea ispanica riuscì a mettersi in salvo, le altre sette furono catturate e rimorchiate fino ad Algeri per essere esibite a rappresentazione della superiorità della potenza corsara che era riuscita a piegare il principale impero del continente europeo.
Marco Pellegrini in uno straordinario libro, Guerra santa contro i turchi. La crociata impossibile di Carlo V , che sta per essere pubblicato dal Mulino, approfondisce questo aspetto della vicenda del Cinquecento, mettendo in luce (pur senza mai rendere il discorso esplicito) le evidenti somiglianze tra gli accadimenti di cinque secoli fa e quelli attuali. Soprattutto là dove descrive il comportamento del re di Francia Francesco I, il quale, dopo la pace di Cambrai (1529), stabilì, a contrastare il sovrano asburgico, un’alleanza sottobanco con l’impero ottomano e financo con Barbarossa. Sottobanco fino ad un certo punto, perché da Istanbul venivano orchestrate «fughe di notizie» a ripetizione con l’evidente scopo, scrive Pellegrini, «di affrettare il cedimento di un’Europa inghiottita dalla spirale di un’implosione senza fine». Papa Clemente VII, Giulio de’ Medici, che pure era in buoni rapporti con Francesco I e lo assecondava in funzione di bilanciamento della potenza asburgica, temendo il peggio si preparò a fuggire ad Avignone. Teatro dell’attacco alla penisola avrebbe dovuto essere il Mezzogiorno, dove «le truppe ottomane, una volta sbarcate in Puglia, si sarebbero trovate aperte le porte per giungere fino a Napoli, grazie all’attivo concorso di popoli e di baroni mobilitati in nome della fedeltà alla Francia».
L’impresa poteva vantare un celebre precedente: l’occupazione di Otranto, durata quasi un anno tra il 1480 e il 1481, allorché «la Mezzaluna fu in grado di ipotecare provvisoriamente il controllo dell’accesso al mar Adriatico, alimentando le prime concrete ipotesi di un assalto all’Italia». In quell’occasione anche Papa Sisto IV si predispose a lasciare Roma. Furono probabilmente la morte di Maometto II (1481) e un successivo periodo di confusione che convinsero i musulmani a desistere. Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia si decisero da quel momento a mettere mano in modo definitivo al Regno di Napoli in coincidenza con l’offensiva finale contro Granada. A spingerli in quella direzione fu la seconda rivolta dei baroni napoletani (1485-86) quando, scrive Pellegrini, «affiorò nei ribelli la disponibilità a darsi in soggezione al sultano turco, chiamandolo a una conquista dell’Italia che, con tutta verosimiglianza, sarebbe partita dal Salento e si sarebbe giovata della loro collaborazione». Ferdinando e Isabella, i re cattolici nonni di Carlo V, si erano impegnati nella Reconquista concepita come «una guerra santa permanente». Ma i musulmani ricacciati indietro, anziché arrendersi e disperdersi, si trasformarono in guerriglieri, o meglio ladrones del mar : facevano base sulla costa nordafricana ed effettuavano razzie sulle rive mediterranee della Spagna con tecniche nuove di cui si dà conto nei libri Corsari nel Mediterraneo. Cristiani e musulmani fra guerra, schiavitù e commercio (Mondadori) di Salvatore Bono e L’arte della guerriglia (Il Mulino) di Gastone Breccia. Corsari, non pirati. Laddove, spiega Pellegrini, «il pirata è un individuo in lotta con il mondo intero e che non ha appartenenza, mentre il corsaro si riconosce dipendente da un’autorità sovrana, dunque da una legge e da una tavola di valori».
In questo caso l’autorità è all’interno del mondo islamico: gli equipaggi delle navi di Barbarossa sono «di ben diversa tempra, costituiti interamente da ferventi musulmani che interpretavano la guerra di corsa come una forma di jihad ». La causa suprema dei corsari di quei primi anni del Cinquecento «fu ravvisata nell’onore della fede musulmana, da tenere alto contro le mire nordafricane di una Spagna neocrociata mai sazia di Reconquista». Come base, agli inizi usarono Tunisi ed ebbero il consenso del re locale, Muhammad V, che apparteneva alla dinastia hafside. Una delle galee a fare per prima le spese della loro baldanza fu l’ammiraglia della flotta pontificia, che Papa Giulio II aveva imprudentemente autorizzato a navigare per speculazioni commerciali sulle coste del Tirreno. I corsari la catturarono, la smontarono pezzo per pezzo e ne costruirono imbarcazioni più leggere e agili. Fu poi il sultano Selim I, detto il Crudele, a cementare l’asse turco-barbaresco che avrebbe rivoluzionato gli equilibri del Mediterraneo nei primi decenni del Cinquecento.
A comprendere che cosa stava accadendo tra le due rive del Mediterraneo, prima ancora dei Papi che, interamente assorbiti dalle contese sul continente, capivano poco di quel che stava accadendo, fu il primate di Spagna, cardinale francescano Francisco Jiménez de Cisneros, il quale nel 1506, durante un assenza del re Ferdinando, aveva assunto la reggenza della Castiglia. Cisneros, scrive Pellegrini, era pervaso da un’ideologia militante che lo portava a fondere la lotta antimusulmana nel Mediterraneo con l’espansione nel Nuovo Mondo, abbracciando entrambe come aspetti particolari di un’unica crociata planetaria, combattuta a onore e aumento della fede cristiana». Nel nome di questa riscossa antijihadista organizzò la spedizione che condusse alla conquista di Orano il 18 maggio 1509. Lì fece massacrare quattromila difensori e catturò ottomila musulmani. Cisneros annunciò poi che «l’islam stava per essere battuto in Africa» e si avvicinava «la conversione di tutta l’umanità a Cristo» assieme alla «riconquista cristiana di Gerusalemme». Ma, anche se alla morte di Ferdinando il Cattolico, nel 1516, avrebbe assunto di nuovo la reggenza, il suo fu un astro effimero e presto i corsari di Barbarossa ripresero a mietere successi. Per di più sul continente tornarono a conquistare spazio quei sovrani che cercavano accordi più o meno espliciti con i protojihadisti. Nell’indifferenza di non pochi pontefici. Primo tra tutti: Clemente VII.
E siamo tornati all’«empia alleanza» del re di Francia con i musulmani. Con quello che l’autore definisce «un gesto provocatorio che sfiorò l’impudenza», Francesco I agli inizi di febbraio del 1532 inviò al Papa una lettera da leggere in concistoro, con cui si scusava di «non poter mettere a disposizione le sue forze per la difesa delle coste italiane in caso di attacco» dei mori, perché doveva impegnarle a fronteggiare le iniziative di Barbarossa. Il quale Barbarossa, invece, era il comandante dell’offensiva contro la penisola italiana. In questo modo Francesco I, scrive Pellegrini, «acquisì i tratti sempre più torvi che contrastavano con la sua fulgida immagine giovanile di re-cavaliere, radiosamente votato all’emulazione di una galleria di illustri antecessori che correva da Costantino e Carlo Magno a san Luigi IX». A nemmeno quarant’anni di età il monarca francese, «incupito dalle sconfitte e dalla mania di vendetta, si era convertito alla più disincantata Realpolitik, facendosi cinico tra i cinici». Messo al corrente fin nei dettagli del progetto ottomano di invasione dell’Italia, «lo condivise e anzi premette su Solimano affinché nei suoi piani desse la precedenza ad esso piuttosto che alla campagna ungherese». Quando si diffusero le prime indiscrezioni di questi «spregiudicati maneggi», il suo «ascendente sul mondo italiano soffrì di un certo ribasso». Ma Francesco non se ne diede cura, «pervaso com’era dalla convinzione che il mondo peninsulare andasse riguadagnato non con il carisma, ma con le armi».
Carlo V e il suo alleato genovese Andrea Doria — come hanno ben spiegato Jean-Michel Sallmann nel suo Carlo V (Bompiani) e Giancarlo Sorgia in La politica nord-africana di Carlo V (Cedam) — si persuasero in quel momento che «il progetto di instaurazione di un ordine europeo cementato dalla religione e dalla lotta contro l’infedele» aveva perso di senso. E se l’imperatore vagheggiò l’idea di una nuova crociata, fu solo per mettere in imbarazzo la Francia. Francia che avrebbe dovuto contribuire a un’impresa militare anti-ottomana, aprendo una crisi in quell’alleanza tra il suo re e Solimano tra i quali si favoleggiava fosse stato stipulato perfino un patto scritto e autografato in possesso dell’agente spagnolo Antonio Rincón, passato dai servizi dell’imperatore a quelli del sovrano francese.
La partita si fece pericolosissima per Francesco I nel maggio del 1532, allorché alla testa di 28 mila fanti e cinquecento cavalieri il sultano turco attaccò con successo la penisola balcanica, per entrare trionfante a Belgrado il 24 giugno. Solimano avrebbe voluto che Francesco I si aggregasse e uscisse dall’ambiguità, dal momento che lo considerava «un volenteroso collaboratore, appartenente al campo degli infedeli che, persuasosi dell’ineluttabilità del passaggio dell’Occidente alla vera fede, si prestava meritoriamente a favorirla». Francesco si sottrasse a quell’abbraccio. Anche perché non gli era sfuggito che Barbarossa aveva evitato di sferrare in quell’estate del 1532 l’atteso attacco alle coste italiane. Probabilmente per gli screzi avuti con alti dignitari della corte ottomana, gelosi del suo «rapporto speciale» con Solimano. Ma non si poteva escludere — e anzi la voce iniziò a circolare — che in quel frangente il corsaro fosse stato «comprato» da Andrea Doria per conto di Carlo V.
Solimano così fu costretto a rinunciare all’affondo. E Carlo V, il 23 settembre 1532, poté fare il suo ingresso in una «Vienna esultante per la scampata sofferenza di un nuovo assedio». La capitale austriaca lo acclamò «quale campione della lotta dell’Europa cristiana contro i turchi e gli fece assaporare uno dei più inebrianti momenti di gloria della sua esistenza». Ma Clemente VII, come si è detto, non gradiva quest’aumento del peso politico dell’imperatore e, senza dar peso agli ambigui comportamenti del re francese, rilegittimò Francesco I agli occhi del mondo cristiano, concedendo la mano di sua nipote, Caterina de’ Medici, al secondogenito del re francese, Enrico duca d’Orléans, destinato a diventare a sua volta sovrano con il nome di Enrico II. Una mossa «sottilmente provocatoria», che attirò persino sul pontefice quelli che Pellegrini definisce «sospetti di slealtà del tutto fondati».
Siamo a un passaggio decisivo: al momento in cui l’Europa potrebbe trovare, sotto le bandiere della cristianità, un suo profilo unitario nel resistere ad un’offensiva islamica (a resistere, sottolineiamo, non già a condurre una guerra come pure era avvenuto con le Crociate), un re patteggia con il mondo musulmano e un pontefice lo asseconda. O, quantomeno, evita in ogni modo di richiamarlo ai princìpi. Un disordine che è magnificamente descritto da Giovanni Ricci in Appello al Turco. I confini infranti del Rinascimento , edito da Viella.
 Nell’agosto del 1533 Barbarossa mosse contro l’Italia meridionale gli attacchi che non aveva attuato l’anno precedente, quando sarebbero stati fondamentali per la causa di Solimano. E ancor più aggressivo fu il beylerbey (governatore) di Algeri nell’agosto del 1534 contro le nostre coste meridionali: l’assedio di Sperlonga e di Fondi lo portò a poche miglia da Roma. Il 18 agosto 1534 fu al largo di Ostia. Ma si astenne dall’attaccare la città del Papa: «Nessun altro all’infuori del sultano doveva avere l’onore di mettere le mani sulla città eterna e solo a lui spettava di decidere se porla a ferro e fuoco oppure risparmiarla in un accesso di generosità». Nel frattempo Barbarossa aveva messo assieme «un cumulo di incarichi che ne avrebbe fatto il pilastro vivente della politica mediterranea di Solimano il Magnifico». Il quale lo nominò grande ammiraglio ( kapudan pasha ), nonché quarto pasha dell’impero ottomano, un’onorificenza tra le più prestigiose.
Contemporaneamente Francesco I, incoraggiato da Clemente VII nei termini di cui si è detto, prese a sovvenzionare i principi protestanti maggiormente impegnati contro l’imperatore, come il langravio d’Assia. Si impegnò perfino «ad inasprire» la spaccatura tra Roma e il Regno d’Inghilterra, sviluppatasi a seguito dello scioglimento del matrimonio tra Enrico VIII e Caterina d’Aragona, tutto pur di provocare una crepa nell’asse tra gli Asburgo e i Tudor. Con ciò mettendo in un grande imbarazzo quel Clemente VII che non lo aveva osteggiato e che, anche per questo, Leopold von Ranke avrebbe definito «il più nefasto di tutti i Papi». Talché sarebbe stato necessario un altro secolo e mezzo, la battaglia di Lepanto (1571), l’assedio di Vienna (1683) prima che si giungesse alla pace di Karlowitz (1699) che avrebbe messo fine alla sanguinosa contesa tra il mondo musulmano e quello cristiano. Una fine che, tre secoli dopo, scopriamo non essere stata definitiva.