venerdì 9 ottobre 2015

Repubblica 9.10.15
Generazione Intifada 3.0 jeans e smartphone per sfidare Israele “Solo così ci salveremo”
La tensione a Gerusalemme è sempre più alta: ieri sette ebrei sono stati accoltellati e un palestinese ucciso
Mentre il sindaco invita i cittadini a uscire di casa armati
Netanyahu promette una dura risposta e vieta ai ministri di visitare la Spianata delle Moschee
La diffusione sui social network dei video degli attacchi esalta i giovani e li spinge in strada
Gli infiltrati.Video diffusi in questi giorni mostrano israeliani vestiti come manifestanti palestinesi infiltrarsi fra i manifestanti per poi sorprenderli e arrestarli: dura protesta dei palestinesi
di Fabio Scuto


CAMPO PROFUGHI DI AL AMARI Pietre, coltelli e Facebook. E’ questa l’Intifada 3.0. Perché è una nuova generazione di palestinesi quella che sta guidando la rivolta di queste settimane, che dalla Città Santa via via è dilagata prima nei Territori palestinesi occupati, poi nella stessa terra d’Israele. Questi ragazzi sono troppo giovani per sapere quali tragedie portò con sé l’ultima Intifada, ma hanno perso la speranza di ottenere uno Stato con i negoziati, diffidano dei loro leader politici e sono convinti che Israele capisca solo il linguaggio della forza. La diffusione poi sui social network palestinesi dei video degli scontri e degli attacchi con il coltello, esalta questi ragazzi, facendone dei volontari pronti per la “prima linea”.
L’hashtag in arabo “l’Intifada è iniziata” rimbalza su tutti i social, anche #IntifadaJerusalem è molto popolare. Mohammad Halabi — che era di El Bireh, a poca distanza da questo campo profughi — prima di accoltellare una famiglia ortodossa alla Porta di Damasco la scorsa settimana aveva postato su Facebook l’annuncio che andava a partecipare alla terza intifada. Nell’era degli smartphone e del “live-tweeting” il video dell’attacco era on-line qualche minuto più tardi. Poco dopo il braccio armato della Jihad Islamica postava un video per annunciare che il gruppo era pronto a riprendere gli attacchi suicidi — che è stato visto 40.000 volte. Quello della morte di Fadi Alloun — dopo aver ferito un ragazzino israeliano in Città Vecchia — 100.000 volte. «Ogni giorno vediamo uno dei nostri morire, il minimo che possiamo fare è quello di condividere le immagini», sostiene Sami, 19 anni, studente di Legge a Bir Zeit. I selfie dei lanciatori di pietre con lo sfondo di copertoni in fiamme e fumi di gas lacrimogeni spopolano, ma ora anche i video dove soldati israeliani mascherati da arabi irrompono sulla scena e preoccupano il governo, tanto che ieri Israele ha chiesto a Facebook e Google di rimuovere i contenuti violenti.
I lanciatori di pietre sono adolescenti ma spesso ci sono anche molti ragazzini. Mustafa, che ha 10 anni, dice con la sua voce sottile che «vuole lanciare le pietre contro i soldati», poi aggiunge con spavalderia «voglio morire da eroe». La generazione di Mustafa non ha vissuto l’intifada, ma è convinta di «liberare la Palestina», come sostiene Marwan che di anni ne ha 19. «Al-Aqsa verrà liberata, e anche Bet-El», la vicina colonia israeliana al confine con Ramallah dove in questi giorni ci sono stati scontri durissimi con l’esercito e oltre 150 feriti. E’ la “prima linea” dove i ragazzi dei campi di profughi di Al Amari, Jalazun e Kalandia vanno a scontrarsi con l’Esercito israeliano convinti che sia il loro unico destino.
Qualche chilometro più in là il Muro di separazione e la sporcizia che caratterizzano il check-point di Qalandia, così vicino eppure così distante da Gerusalemme. I miasmi di gas lacrimogeni e copertoni bruciati rendono l’aria irrespirabile. Appena dall’altra parte nei quartieri arabi di Shuafat e Beit Hanina, è un caos di spari, esplosioni piccole e grandi, incendi. Le sirene e lampeggianti rossi delle ambulanze e quelli blu di esercito e polizia si intravvedono a malapena fra le fiamme e il buio della sera che cala. Si è fatto largo uso di armi e pallottole vere, qui è stato ucciso un palestinese di 21 anni e 12 altri feriti. Le notizie che escono dall’autoradio segnalano la pericolosa deriva delle violenze non solo nella Città Santa con i sei quartieri arabi in fiamme, nei Territori occupati, ma anche in Israele. Attacchi a Tel Aviv e ad Afula, nel Negev, aree estranee nel passato a violenze di questo genere. Sono i “lupi solitari” palestinesi: sette israeliani feriti in un sol giorno a colpi di forbici, coltello e cacciavite.
Il presidente Abu Mazen cammina su una corda molto sottile.
Sta cercando di impedire un’escalation nella convinzione che questo costerà ai palestinesi la simpatia internazionale (come accade per la Seconda Intifada) ma non può ordinare ai suoi apparati di sicurezza di fermare le proteste di piazza, altrimenti verrebbe spazzato via dalla rabbia popolare. Molto dipenderà dalla risposta di Israele che accusa il leader dell’Anp di soffiare sul fuoco. Il premier Benjamin Netanyahu per evitare nuove tensioni sulla Spianata ha vietato le visite di politici israeliani e palestinesi sul luogo santo per le due religioni, ha annunciato che metal detector verranno installati a tutti i 9 ingressi della Città Vecchia. Sulla Città Santa aleggia da settimane una soffocante cappa. Il timore di attacchi terroristici è diffuso e la tensione si riflette nei comportamenti quotidiani, l’ansia si legge negli occhi della gente per le strade, al bar, i ristoranti sono semi-vuoti così come i centri commerciali e i cinema che hanno abolito l’ultimo spettacolo. Perché il buio, adesso, fa paura. Le scuole di ogni ordine e grado ieri sono state chiuse in città (e lo saranno anche oggi) su richiesta dei Comitati dei genitori. Chi pensa che Gerusalemme sia una città come un’altra ha avuto ieri la prova inquietante e dolorosa che questa è solo un’illusione. Di primo mattino il sindaco Nir Barkat si è fatto ritrarre dalla tv mentre usciva di casa con un fucile in mano e ha lanciato un invito che non può non far correre un brivido lungo la schiena. «Molti in Israele hanno esperienze operative di combattimento, il mio suggerimento è: chi possiede un’arma, esca di casa armato».