giovedì 8 ottobre 2015

Repubblica 8.10.15
L’ultimo patto sul Quirinale riavvicina le anime del Pd
E a Roma comincia il dopo-Marino: un percorso complesso dal commissario alle nuove elezioni
di Stefano Folli


L’ACCORDO dell’ultim’ora nel Partito Democratico sulle modalità di elezione del capo dello Stato permette di aggiungere un altro tassello alla riforma costituzionale che si vota al Senato. Si dirà: c’era bisogno di un’altra intesa nel partito di Renzi? Non era già stato tutto definito nei giorni scorsi, tanto che le votazioni si sono succedute secondo il calendario previsto e senza colpi di scena?
È vero, ma il primo accordo non copriva l’insieme della riforma. Disinnescava i punti critici, come il famoso articolo 2, ma lasciava in parte scoperti alcuni snodi essenziali, relativi alle funzioni del nuovo Senato e, appunto, all’elezione del presidente della Repubblica. Così abbiamo rivisto, in piccolo, lo stesso braccio di ferro fra renziani e minoranza del partito che aveva riempito le cronache alla fine di settembre. Sullo sfondo lo scenario non era cambiato: la riforma procedeva, gli emendamenti venivano bocciati o ritirati. In poche parole, la cornice politica reggeva. Eppure si avvertiva qualche scricchiolio: i voti della maggioranza cominciavano a calare, specie in occasione degli scrutini segreti, e di conseguenza i voti del gruppo Verdini acquistavano un peso più significativo, pur non arrivando a essere davvero determinanti. Anche Forza Italia, in un caso, è tornata ad affacciarsi.
Si rendeva necessario quindi ritoccare il patto interno al Pd ed estenderlo alla questione presidenza della Repubblica. Si capisce perché: in un sistema monocamerale e fondato sul vistoso premio di maggioranza assegnato dall’Italicum, la tentazione di acchiappare senza fatica tutte le cariche istituzionali potrebbe essere irresistibile per il partito vincente. Il tema non è secondario e riguarda proprio il ruolo di controllo del nuovo Parlamento rispetto a un esecutivo mai così forte. Il modo di eleggere il capo dello Stato, figura di garanzia per eccellenza nel nostro ordinamento, è emblematico di tale necessità. Ne deriva che l’accordo individuato è positivo. Impedirà alla maggioranza politica scaturita dall’Italicum — che sia guidata da Renzi o da Grillo o da mister X — di eleggere da sola il capo dello Stato, trasformando di fatto il Quirinale in un’appendice di Palazzo Chigi.
Il presidente della Repubblica dovrà essere eletto dai tre quinti dell’assemblea: il che imporrà la ricerca di una mediazione con almeno uno dei gruppi di opposizione. Qualcuno è critico, sostenendo che con un “quorum” così alto e mai destinato ad abbassarsi si rischia di andare avanti all’infinito con le votazioni. Ma è un argomento debole: la spinta a individuare intese in Parlamento sarà tanto più convinta quanto più la maggioranza saprà di non avere alternative. E, del resto, proprio la convergenza su Sergio Mattarella ha dimostrato di recente che le questioni si risolvono con sensibilità politica e non con la forza dei numeri. Ecco perché la giornata di ieri dovrebbe avere suggerito a Renzi e agli altri che trovare punti di equilibrio nel Pd è possibile e talvolta è persino utile.
C’è una seconda indicazione emersa nella giornata e riguarda un altro palazzo di Roma, il Campidoglio. Qui l’agonia politica del sindaco di Roma prosegue, ma da vari indizi si arguisce che potrebbe aver presto termine. Dopo tante gaffes ed errori anche gravi nell’amministrazione della città, il paradosso vuole che Marino sia sconfitto per una grottesca storia di scontrini. La vicenda è nota e non serve riassumerla.
MA SBAGLIA chi la ritiene minore, quasi irrilevante. Marino era stato eletto sindaco ammiccando all’anti-politica, cioè al sentimento anti-casta. Aveva cominciato rifiutando la scorta e i privilegi. È finito avviluppandosi da solo in una rete di sotterfugi, di mezze verità e sostanziali bugie, a livelli davvero infimi, che lo hanno messo spalle al muro. Per il Pd è l’ora di scegliere. Insegna qualcosa il caso Bologna. Anni fa il comune simbolo della sinistra fu commissariato per uno scandalo. Arrivò un prefetto che seppe rendersi popolare, Annamaria Cancellieri. Dopo qualche mese la sinistra rigenerata vinse le elezioni. È un promemoria per Renzi e Orfini.