mercoledì 7 ottobre 2015

Repubblica 7.10.15
Una mostra celebra a Pavia il centenario della studiosa che risolveva i “casi” della letteratura
Una detective chiamata Maria Corti
di Francesco Erbani


Maria Corti amava la montagna. E soprattutto le sue montagne frondose della Val d’Intelvi, fra i laghi di Como e di Lugano. Per far capire come procedeva in un accertamento filologico usava di frequente metafore montanare. E chi l’ascoltava se la raffigurava, concentrata sulle fonti islamiche di Dante o sui quaderni di Beppe Fenoglio, quasi s’inerpicasse veloce lungo vie ferrate, ma sempre attenta a dove poggiava gli scarponi. Di metafora in metafora, ecco che si parla di Maria Corti come di una Perry Mason della filologia nella mostra che si apre domani a Pavia affidata alla responsabilità di Maria Antonietta Grignani.
La mostra ripercorre, a cent’anni dalla nascita (il 7 settembre del 1915), l’eccezionale carriera di una studiosa che non si chiuse mai in una gabbia
specialistica, pur avendone diritto visti i meriti acquistati. Estese indagini che di solito si limitavano alle carte trecentesche, o giù di lì, agli autori novecenteschi fino ai contemporanei, i cui manoscritti raccolse nel Centro da lei fondato nel 1968. Studiò le parole del Sessantotto e la lingua del gruppo rock degli Skiantos. E scrisse, oltre a una miriade di saggi ( I metodi attuali della critica – insieme a Cesare Segre –, Principi della comunicazione letteraria , Il viaggio testuale , La felicità mentale ), Ombre dal fondo e Catasto magico che definiva «scritture narrative». Nel primo immaginava che gli autori le cui carte aveva conservato a Pavia si rianimassero. Nel secondo raccoglieva quel che l’Etna, un generatore formidabile di erudizione, produceva ancora in termini di storie, alimentando una continua facoltà di fantasticare. Poi nel 1979 fu tra i fondatori di Alfabeta. E ancora, fino alla morte nel 2002, fu collaboratrice di Repubblica . «La sua attività creativa è stata sottovalutata rispetto a quella scientifica », dice Grignani, che ha lavorato con Corti dalla fine degli anni Sessanta. «Ma la creazione del Centro manoscritti è tanto opera di studiosa, quanto di scrittrice: più che la microstilistica, la interessano i percorsi degli autori, le cancellazioni, le contraddizioni prima che si giunga alla versione definitiva di un testo». Ma in che cosa consiste la propensione investigativa che mette Corti al pari del celebre avvocato americano? Nella mostra di Pavia, con tanti materiali e con un video di Paolo Lipari, si ricostruisce una delle sue più laboriose indagini, del genere cold case : individuare l’autore di un poemetto cinquecentesco, il Delphili somnium (dell’indagine Corti ha scritto in un saggio poi raccolto in Nuovi metodi e fantasmi ). Padre Giovanni Pozzi, altro grande filologo, aveva attribuito il poemetto a Francesco Colonna, al quale veniva ascritta anche l’ Hypnerotomachia Poliphili .
Corti inizia a dubitare a prima vista. Il testo, che a Pozzi appariva d’ambiente veneto, ha qualcosa che invece lo fa slittare in Emilia. Ma un dubbio non basta di fronte alla sicurezza d’un esperto detective come Pozzi.
Bisogna inoltrarsi in sentieri impervi. E concentrarsi su un luogo dove l’autore ambienta un amore infantile: secondo Pozzi, è una città veneta. Secondo Corti, un castello. Corti demolisce a colpi di fioretto le ipotesi di Pozzi sul contesto paesaggistico nel quale l’autore colloca la sua storia, sull’età in cui fu colto dalla passione e su chi fosse la creatura amata. Quindi il colpo di scena. «Mi è lecito affermare», sentenzia a un certo punto, che i particolari elencati nel poemetto «trovano esatta rispondenza nel castello di Momeliano», nell’Appennino piacentino. Non è una supposizione topografica. In quel castello Corti si reca di persona, ottiene dai proprietari di perlustrarlo stanza per stanza, usando il poemetto come guida. Corti compulsa poi archivi parrocchiali e risale alla famiglia Ceresa, che possedeva il castello fra la fine del Quattrocento e i primi del Cinquecento. Il cui rampollo, Marco Antonio, è l’autore del Delphili somnium . Il cerchio si chiude. Molti colleghi plaudono all’attribuzione. Ancora per qualche anno l’autore del poemetto rimane solo un nome. Poi una serie di accertamenti compiuti da un altro studioso, Giorgio Fiori, consentono di dargli la paternità di diverse opere. Con soddisfazione del detective Maria Corti, che può esclamare: «Era un’ombra, un fantasma, ora non lo è più».