mercoledì 7 ottobre 2015

Repubblica 7.10.15
Il retroscena
Strappo del centrosinistra: quorum più basso per il Colle
Casini: se la sinistra dem si tira fuori e rende Verdini determinante, si suicida davvero
di Tommaso Ciriaco


ROMA L’elezione del Presidente della Repubblica cambia ancora. Con cento delegati territoriali si allarga la platea dei grandi elettori. Dal sesto scrutinio, però, basterà la maggioranza assoluta - e non più i tre quinti dei votanti per individuare il nuovo inquilino del Colle. Così prevede la bozza d’intesa che ambasciatori del renzismo e bersaniani si scambiano freneticamente alla vigilia del rush finale sulle riforme. Non tutto è ancora deciso, perché pesano pure le virgole. E molto si deciderà stamane in un vertice convocato all’alba per ufficializzare l’ultimo restyling del ddl Boschi.
Nel Partito democratico l’accordo è a un passo. Eppure il diavolo - come al solito - si mimetizza nei dettagli. Si è capito ieri, nel corso di una frenetica giornata di mediazioni, accelerazioni e brusche frenate. Un primo step alle nove, con Luigi Zanda e Anna Finocchiaro, Giorgio Tonini e i bersaniani. Poi un nuovo incontro alle undici, assieme al ministro Boschi. Fino a un summit serale, sconvocato solo all’ultimo a causa di un’influenza del capogruppo. Si tratta a oltranza, nessuno scopre fino in fondo le carte. «Noi vogliamo un’intesa», giura il ministro. «Possiamo siglarla, ma cambi anche la norma transitoria in modo da garantire fin da subito l’elettività diretta dei senatori », replicano i mediatori della sinistra dem Vannino Chiti, Maurizio Vigliavacca e Doris Lo Moro.
Da qualche settimana nel quartier generale del renzismo si è fatta spazio una preoccupazione: il meccanismo per eleggere il Capo dello Stato non funziona. Timori riassunti dal costituzionalista Stefano Ceccanti: «Con la norma attuale servono i tre quinti dei parlamentari a eleggere il Presidente». Vale a dire 438 su 730. «E siccome la maggioranza alla Camera potrà contare su 340 deputati- ricorda sempre Ceccanti - occorerebbe tutti e cento i senatori per scegliere il Capo dello Stato. Impossibile, a meno che non sia l’opposizione a decidere il candidato». Lo spettro, insomma, è la palude. Con decine di scrutini e uno stallo che precipiterebbe il Paese nel caos.
Serve una “norma di chiusura”, si sgola da tempo il sottosegretario Luciano Pizzetti. Ritoccando il quorum, introducendo la maggioranza assoluta dal sesto scrutinio. Il prezzo da pagare con la minoranza, fra l’altro, non sembra poi neanche troppo salato. «Un aumento significativo della platea dei grandi elettori», ha sintetizzato Chiti. Quanto significativa? Per i bersaniani occorre coinvolgere i 58 delegati regionali (cancellati dall’attuale testo) e affiancarli ai 73 eurodeputati. Oppure arruolare alla causa anche un’ulteriore pattuglia di sindaci. Impossibile far votare il Capo dello Stato da chi è stato eletto a Bruxelles, è stata la replica del governo. E meglio sarebbe tenere fuori anche i primi cittadini. Si ragiona allora attorno all’ipotesi dei cento grandi elettori regionali. Con un’obiezione, targata Boschi: in questo schema il peso delle Regioni diventerebbe addirittura eccessivo.
Il vero bersaglio della minoranza è però un altro: la norma transitoria che governa l’elettività diretta dei nuovi senatori. Senza indicazioni costituzionali stringenti ai consigli regionali, a Palazzo Madama planerebbero nuovi nominati. «Dobbiamo metterci mano. È come se avessimo fatto un preliminare di vendita, adesso serve il rogito - è l’immagine offerta da Massimo Mucchetti - Altrimenti significa che ci hanno preso in giro». Anche qui la mediazione è a portata di mano. La modifica, studiata da Lo Moro, prevede che ogni elezione regionale contemporanea o successiva all’insediamento del nuovo Senato si svolga con l’elezione diretta dei senatori. Con sanzioni alle Regioni che non si adeguano.
Bisogna percorrere solo l’ultimo miglio, ma gli ostacoli non mancano. Se qualcosa dovesse andare storto, la rappresaglia della minoranza si consumerebbe proprio sulla norma transitoria. «Se non cambia - giura Mucchetti - noi non la votiamo». Bastone e carota, minacce e carezze. «Se la sinistra democratica si tira fuori - ragiona Pierferdinando Casini- rende Verdini determinante. Di fatto, si tratterebbe di un suicidio». Tutto o quasi dipende dal Pd. Le opposizioni restano a guardare, ma intanto bocciano l’idea di cambiare il meccanismo per il Quirinale. Troppo potere a chi vince le elezioni, attacca Romani. Un colpo di mano, per i grillini. «Quando si limita la democrazia - si infuria il capogruppo pentastelalto Gianluca Castaldi siamo sempre contrari».