domenica 4 ottobre 2015

Repubblica 4.10.15
Roma e la sindrome dell’isolamento
di Ferdinando Salleo


L’ANGOSCIA dell’esclusione dai ristretti gruppi di Stati dove si prendono le decisioni che contano nello scenario internazionale, quelle cui poi dovremo alla fine attenerci, si fa sentire più forte quando le crisi incalzano e toccano da presso l’Italia. Questo è di nuovo accaduto qualche giorno fa, quando il nostro Paese non è stato coinvolto nelle negoziazioni sulle guerre in Siria e Libia cui hanno partecipato Francia, Germania e Gran Bretagna insieme all’Alto rappresentante europeo Mogherini. Così l’ossessione riappare oggi a influenzare l’orientamento della nostra politica estera. Sospetti, risentimento e sgarbi punteggiano le reazioni dell’opinione politica e dei governi, infiammano i commenti e il pubblico: l’esclusione suscita poi risposte sovente umorali e avventate. Né valgono le recriminazioni perché, come scriveva Adorno in ben altro contesto, provano soltanto il torto dell’accusatore.
Ci sarà pure tra le ragioni obiettive dell’esclusione la nostra dimensione geopolitica, come ci ricorda Salvemini — cioè che l’Italia è la più piccola tra le grandi potenze, la più grande tra le piccole. Ma, per restare ai tempi più vicini, non possiamo dimenticare i momenti in cui Roma ha espresso la visione politica e il coraggio che ha fatto avanzare le grandi cause, dalla Conferenza di Messina che permise al disegno europeo di uscire dallo stallo, alla battaglia contro la pena capitale e alla creazione della Corte Penale internazionale. Senza contare le missioni di pace e i compiti umanitari in cui le nostre forze armate si sono guadagnate generale apprezzamento.
Il mondo è profondamente cambiato, globalizzazione e frammentazione si affrontano in maniera episodica nei conflitti locali che necessitano un ruolo dell’Europa come soggetto, non più oggetto delle crisi. A questa trasformazione, l’Italia, membro fondatore e portatore di una tradizione politica, è chiamata a contribuire efficacemente. Innanzitutto, appunto, con un disegno di ampio respiro, diretto concretamente soprattutto a quell’unione politica che abbiamo sottoscritto e di cui abbiamo grande bisogno.
La trasformazione dell’Europa che il Trattato di Lisbona ha messo in moto richiede all’Italia di ritrovare un alto profilo etico-politico che ispiri le giovani generazioni, afflitte dalla crisi economica e immiserite nella contestazione dell’incomprensibile carenza di ideali in cui si è impantanata la struttura istituzionale dell’Unione, che oggi si sostanzia nella difesa di un’antistorica sovranità che guarda al giardino di casa. Quella sovranità che, già nel 1917 e, trent’anni dopo, alla Costituente, uno dei Padri della Repubblica, Luigi Einaudi, chiamava “mito funesto” quando ricordava che la Seconda guerra mondiale aveva mostrato l’inadeguatezza ormai degli Stati europei. Chi ha un vero messaggio politico è ascoltato, potrà essere discusso o contestato: ma il suo contributo è sempre richiesto e tenuto in conto. La visione politica del ruolo e del destino di un Paese, piccolo o grande che sia, fa la differenza tra attori e spettatori degli orientamenti che si determinano collettivamente nella gestione dello scenario internazionale e si trasformano quindi in decisioni. Gli obiettivi che una classe politica pone al proprio Paese trascina l’opinione e così rafforza l’azione dei governi obbligandoli a comparare il ruolo e le risorse, a finalizzare queste, potenziate, a quello legittimandolo e fidando di coglierne i frutti.