domenica 4 ottobre 2015

Repubblica 4.10.15
L’arte e il sacro
Da Van Gogh a Chagall quando la bellezza è divina
Al Palazzo Strozzi di Firenze un percorso di opere indaga il rapporto tra religione e modernità
di Paolo Russo


FIRENZE Da poco aperto in Palazzo Strozzi (fino al 24 gennaio), l’excursus fra pittura e scultura di “Bellezza divina” indaga, da metà ‘800 a metà ‘900, le relazioni fra arti e sacro. Cento le opere che l’eccellente cura di Lucia Mannini, Anna Mazzanti, Ludovica Sebregondi e d’un ottocentista come Carlo Sisi, ha articolato in sette stazioni cronologico-tematiche. Organizzata dalla Fondazione Strozzi con l’ex soprintendenza speciale, la diocesi e i Musei Vaticani, la mostra è stata creata, in due anni di ricerche, anche pensando alla visita fiorentina del 10 novembre di papa Francesco. Che di certo apprezzerà almeno un’opera a lui cara, “Crocifissione bianca” di Chagall , fra
le undici mai viste in Italia. Attonito racconto dell’albeggiante orrore nazista contro gli ebrei, come fatto da chi si sveglia da un sogno terrificante per scoprire ch’è vero. Ed il cui biancore grigio gelo e i proverbiali colori del maestro sono pietrificati in un algore senza salvezza.
Per secoli era stata la Chiesa cattolica apostolica romana a regolare il legame antico come l’uomo fra arte e sacro. Ma, dopo le terrestri vanità di Barocco e Rococò, la Restaurazione indusse una rinascita dell’arte a soggetto sacro. Pare strano che sia accaduto mentre il tempo spazzava via in un attimo, in seguito anche coi primi due massacri industriali di ogni epoca, il mondo conosciuto. Nulla però si sottrasse al trionfo della borghesia, né alle conquiste di scienza e pensiero che l’Europa imperialista impiegò per sedersi in testa al mondo. Non la scampò nemmeno il potere immenso della chiesa. Lasciando così gli artisti a domandarsi: che fare? Intanto la nuova committenza, potenti borghesi e nobili ancora ricchi, non aveva abbandonato secoli di cattolicesimo. Agli artisti dunque il compito di ravvivare l’espressione del sacro. Di tradurre le nuove temperie in una sopravvivenza di qualcosa di eticamente bello. Un clima nel quale la memoria, di Ingres o dei Preraffaelliti, di Beato Angelico o Perugino, ottemperasse il desiderio degli abbienti di esser rassicurati, ancorandoli a qualcosa in cui si ri-conoscevano. Come non pochi pittori e scultori attivi dagli anni Sessanta dell’Ottocento, che ebbero però in dote una libertà d’azione, sentimento e pensiero senza precedenti. La si potrebbe chiamare quindi persino “reazione” quella, di Giuseppe Catani Chiti che nel Redentore squarciato di luce, nella sala d’apertura, ricorre al trittico fondo oro, rimando immediato a Gentile da Fabriano. Nell’eclettismo di questa fase, la mostra fissa contrasti illuminanti e declinazioni che un tempo sarebbero state eresia: l’orientale, barbarica Caduta di San Paolo di Domenico Morelli; l’incruenta, metafisica fissità del San Sebastiano di Gustave Moreau tratta dal calco d’un corpo; la Flagellazione di Cristo di Bougeuerau, allora accusata di estetismo e presaga di un iperrealismo a venire. Già dalla seconda stazione, dedicata alla Madonna, la mostra apre alle infinite variabili d’un presente pronto a tutto. Dalle due Madonne di Munch, scandalosamente sessuate e umanamente assorte nel compito fra dovere e piacere, all’eleganza liberty di Adolfo Wildt nel gesso Maria dà luce ai pargoli cristiani . Ed è nella “Vita di Cristo”, il capitolo più corposo della mostra, che attraverso le foschie cromatiche di Corcos, Previati e Chini, il lampo di cinema che muove, dal basso, lo sguardo dell’ Angelo dell’Annunciazione di Glyn Warren Philpot, fino alla tragedia irripetibile della crocefissione nelle varianti di Picasso, Dix, Ernst, Vedova e il grande Sutherland. La cesura senza ritorno, comunque abitata da un atemporale senso del sacro, parte però già col Van Gogh afflitto della solitaria Pietà , e arriva col Fontana delle formelle della Via
Crucis , nelle quali la materia viene incisa e lavorata in ogni più minuta particella, già a un passo dall’esser squarciata in cerca di ulteriori confini. Molte altre sono le stazioni di questo cammino, come la monografica in cui Severini viene offerto nel suo prolifico approdo al sacro. O quella sulla Chiesa, in cui Scipione prevede Fellini ne Il cardinale
decano , Matisse immagina la sua Casula verde e Manzù la bronzea piramide del suo Grande Cardinale . Ma è giusto che sia il capitolo sulla preghiera a chiudere una mostra che fa uscire sapendo più di quando siamo entrati. Perché è lì, fra la devozione assoluta dei contadini dell’ Angelus di Millet, lo strazio del cieco di Viani che solitario prega sulla spiaggia e la magica visione del giovane Casorati di
Preghiera , che stanno le origini di un rito tanto arcaico da essere arrivato, con o senza la chiesa, fino a noi.