venerdì 2 ottobre 2015

Repubblica 2.10.15
Il mio Actor’s Studio è un sogno junghiano
Toni Servillo racconta la sua filosofia: “No a formalismi e virtuosismi recitare vuol dire empatia e frantumazione del proprio Io”
di Toni Servillo


Comincio da un interrogativo: l’interprete cos’è? È un mero esecutore di una partitura e, come dire, la “riproduce”? Non è mai così, naturalmente. Credo che un interprete, nel suo lavoro di scavo, interroghi in maniera profonda, continua, ossessiva, i valori che emergono dalla tessitura drammaturgica. Quindi è un processo lento; credo che l’interpretazione sia uno scandaglio gettato in un mare fecondo che è un grande testo, e rispetto a quello che è stato già detto tu abbia qualche cosa in più da dire, che si aggiunge
ma che nasce da quella ricchezza. Posso ricordare qui un atteggiamento cui fa riferimento Louis Jouvet a proposito delle relazioni con il personaggio, quando dice: «Io ho sempre pensato che il personaggio è più grande di me e la mia complessità deve mettersi in relazione con un personaggio che è un Amleto, un Tartufo, una creatura poetica talmente più grande di me che in una prima fase di approccio mi intimidisce, poi lentamente trovo una forma di relazione, poi forse riesco ad aggiungere qualche cosa a quello che ha già detto l’autore attraverso quel personaggio».
Insomma, questa è la mia formazione: non è una formazione di natura iconoclasta, pur avendo adorato alcuni artisti iconoclasti. Io sono molto più interessato al concetto di persona in quanto dramatis personae anche nel senso junghiano del termine. La persona mi interessa da questo punto di vista: le quantità di maschere che noi siamo capaci di portare. Diciamo quindi che tutto l’aspetto “formale” mi interessa negli anni sempre di meno o per così dire mi risulta come un accessorio rispetto a quello che riguarda invece il valore fondamentale di una proposta teatrale che è per me il contenuto. Ma per me il contenuto implica il valore essenziale della comunicazione: è quello che accade. Da questo punto di vista sono molto più interessato al “noi”. Sì, insomma credo che il teatro sia quella straordinaria occasione in cui l’Io si polverizza, evapora, è come se si sciogliesse nell’aria. Insomma scopro nella pratica quotidiana del teatro che uno dei valori più straordinari di questo mestiere è il valore legato al concetto di empatia. Più vai avanti e più ti accorgi che, con pochissimi mezzi, questo mestiere ti offre la possibilità straordinaria di un’”emozione empatica”, che significa riconoscere se stesso negli altri.
Questa “spersonalizzazione”, chiamiamola così, questa polverizzazione, e di conseguenza questa empatia, hanno a che fare semplicemente con la pratica del palcoscenico. Ora, si tratta di un fatto materiale, biologico. Noi non sappiamo ancora cosa sono i sogni, non lo sappiamo. Al di là di ciò che diceva Jung o Freud, ci sono poi alcuni neurologi che sostengono sia un fatto meramente legato alla corteccia cerebrale che mette in moto qualcosa. Io quello che so è che ogni volta che torno in albergo, in anni di frequente solitudine (che poi la vita di un attore è fatta di moltissima solitudine), torno e vedo a un certo punto come una moltiplicazione di facce, di esperienze, di incontri, di energie anonime. Senti che hai messo in moto qualcosa, e che questo è bello perché è involontario.
Accade cioè nella sua involontarietà e ha a che fare con la natura del teatro che è la natura della vita, cioè che passa, che è caduca. Per cui a un certo punto capisci che, di quel poco che hai fatto, la cosa più bella – e che non è generalizzabile – è quella e la fai grazie alle “zattere” che in questo mare di involontarietà, si chiamano Alceste, Orgone, si chiamano i fratelli Saporito; sono “zattere” a cui mi aggrappo e che hanno il potere di sottolineare a un certo punto, in maniera concreta, il fluttuare di un destino.
In tale processo la qualità del pubblico, le differenze dei pubblici, aggiungono sempre qualche cosa. Questa è la ragione per cui un simile processo toglie al teatro ogni forma di narcisismo e lo polverizza; ciò lo mette a riparo da sciocchezze del tipo: “Io sono Amleto, Amleto stava aspettando solo me!” ecc. Amleto è uno, e l’ha scritto Shakespeare, solo chi lo aggancia in maniera esatta ha la dignità di essere Amleto. Questo è l’atteggiamento interpretativo per me “sano”.
Questa è, anche nella vita di tutti i giorni da spettatore, la ragione per cui io trovo poco interessante il talento portato alle sue massime conseguenze, e qui intendo rifarmi a quegli attori che sanno far tutto, talmente bravi “che fanno schifo”. Così come m’interessa molto poco il non-attore portato nella dimensione della recitazione: il “disabile”, il “diverso”, lo “strano”, perché secondo me è “in mezzo” che ci sta qualcosa di più interessante.
Non so se toccando vari punti io sia riuscito a dare una mia idea teatrale. Certo è che un mio teatro non esiste, un mio teatro non c’è. Di altri, di pochi, si può dire ci sia un teatro: il teatro di Leo de Berardinis ecc. Persone che hanno potuto mettere il proprio nome accanto al teatro che facevano. Io sono un interprete e ho cercato di raccontare brevemente gli aspetti che dell’interpretazione mi affascinano, aspetti legati a un percorso. Un percorso legato alla pratica, inesorabilmente, alla pratica quotidiana.
Mi viene in mente però un regista di cinema come Ozu. In una conversazione che ebbi con Theo Angelopoulos, sul set di un film rimasto incompiuto a causa della sua scomparsa improvvisa, lui mi raccontava di essere andato in pellegrinaggio, durante una rassegna di suoi film in Giappone, sulla tomba di Ozu e di essere rimasto affascinato dal fatto che l’ideogramma inciso sulla sua tomba significasse NULLA. Quello che è straordinario è che quando vedi le inquadrature fisse dal basso di Ozu, e in particolare nello straordinario film Viaggio a Tokyo , vedi che quel nulla coincide con una grande quantità di vita che c’è dentro, così com’è (si apre una porta, si esce, arriva il padre, preparano il tè). È una riflessione nutriente per cercare di andare in profondità su questa questione, su quest’aspetto dell’involontarietà, dell’acciuffare la vita che spesso coincide con il nulla stesso.
IL LIBRO Toni Servillo Oltre l’attore, a cura di Roberto De Gaetano e Bruno Roberti (Donzelli, pagg. 277, euro 25).