venerdì 23 ottobre 2015

Repubblica 23.10.15
Il romanzo scomodo del Pinocchio nichilista
“Il popolo di legno”di Emanuele Trevi ha come protagonista un uomo deciso a demolire il politicamente corretto. Attraverso una rilettura dell’eroe di Collodi
di Massimo Recalcati


L’ultimo romanzo di Emanuele Trevi è una pietra scagliata con forza contro il muro (di gomma?) della retorica umanistica. Il suo personaggio principale, detto il Topo («diretto discendente del Nulla»), è un uomo che la vita ha segnato con più ferite e che però rivendica con orgoglio la propria libertà. Già il suo nomignolo è «una goccia
di fiele ingoiata tra tutte quelle che tocca ingoiare a un bambino», «un vessillo, un tatuaggio». Il nome del Topo assomiglia a una ingiuria. Il Topo (è lui il protagonista di Il popolo di legno ) non è forse un animale che vive nelle fogne? Fuori o sotto la città, un animale sudicio, per la psicoanalisi il simbolo dell’escremento, dell’oggetto- scarto. Il suo nome è, dunque, un destino: il Topo pensa he la vita vera non sia la vita che si vede.
Noi vediamo il sasso, ma non la vipera acquattata di sotto; vediamo lo splendore dei valori morali, ma non i «desideri inconfessati, i piani di vendetta, le verità mortali». Il Topo è un allievo estremista di Nietzsche nel decretare la morte di ogni valore che possa dare significato alla vita. La vita non ha un senso, come dichiarava Nietzsche; è un rotolare «tra due nulla», quello della nascita e quello della morte. Il Topo è come Sisifo: tutti noi siamo costretti a risalire «continuamente il fiume dell’irreparabile». La vita assomiglia al destino di una pila: «Perdita di energie, perdita di senso... puro e semplice scorrere del tempo unito all’impercettibile deteriorarsi di tutto ciò che si ripete, sempre più marcio ma identico a se stesso».
Il Topo vive in provincia di Reggio Calabria. Il suo mondo è «senza eroi, senza santi, senza sapienti». Come la vipera che sta sotto il sasso, esso è «popolato di poveri stronzi e figli di puttana, tutti appesi a una ruota che trasforma i primi nei secondi e viceversa». La Calabria di Trevi è una Calabria bekettiana; il deserto senza Dio di Finale di partita. Non è solo una regione dell’Italia abbandonata a se stessa, ma acquista in Trevi la dignità di una cifra della nostra condizione pensata al di là di ogni consolazione e di ogni promessa di redenzione e di riscatto. Come l’Aci Trezza di Giovanni Verga, la Sicilia di Vittorini o le Langhe di Pavese, ma senza che sussista più alcun afflato lirico, alcun segno di resistenza. Essa è perciò più simile alle periferie romane descritte da Pasolini: popolo lasciato fuori, scartato, senza più lingua, senza speranza, senza identità, vittima di uno sviluppo cieco, senza progresso.
I calabresi sono il “popolo di legno”, il popolo che fa esperienza dell’abbandono, dell’insensatezza della vita, della vita che può non valere nulla, che non ha orizzonte, destinata a incenerirsi nel vuoto. Eppure in questo mondo fuori dal mondo prende improvvisamente corpo l’idea di una impresa: dal pulpito di una piccola rete televisiva il Topo conduce una serie di trasmissioni titolate Le avventure di Pinocchio il calabrese.
In questa Calabria senza scampo, il Topo osa prendere la parola. Lo fa sfiorando ogni volta la farneticazione e la visione allucinata, ma da essa si sprigiona una forza nuova e imprevista. La parola di un figlio di nessuno raduna il popolo di legno. Se l’Uomo è morto allora viva il burattino di legno! La tesi del Topo è radicale: c’è più verità nella vita come non-senso che nell’idea umanistica della vita come dono. Le sue prediche sono un inno all’anima di legno, all’anima senza Io, all’anima infima, disincantata che non crede più a nessuna illusione. «Noi non siamo i figli della realtà, e non siamo fratelli di nessuno. Noi siamo figli di noi stessi. I figli del falegname. Come Gesù, come Pinocchio». Il Topo non crede né a Dio — la religione è ai suoi occhi solo un rituale superstizioso —, né all’Uomo, ma solo al legno; non crede al bambino di carne che risorge dal burattino ribelle, ma a quel burattino in preda della vita e alla sua danza sull’abisso. «Chiunque desideri liberare se stesso e gli altri — si chiede —, deve contemplare e desiderare la morte? Come se per liberare una casa da un’antica maledizione fosse necessario raderla al suolo».
Il Topo non ha incontrato nessuna testimonianza incarnata del desiderio. La sua vita è stata popolata solo da derelitti, morti viventi, predoni. Suo padre e sua madre («tristi spaventapasseri»)se ne vanno presto dalla sua vita per morire di droga in un sobborgo di Sydney. Il Topo non è figlio di un re, non è un principe a cui spetta la trasmissione del trono. A lui solo l’eredità di «una corona di ciglia lunghissime», quella che gli occhi scuri della madre gli lasciano prima di scomparire per sempre dalla sua vita. Si può conferire un significato alla nostra esistenza se l’esistenza è alla sua origine priva di senso? È questa la domanda che incalza assillante in tutte le pagine del romanzo e che attraversa la vita stessa del Topo. Senza eredità, orfano assoluto, egli può accedere solo furiosamente alla libertà.
La verità è nel legno o nella carne? Il Topo capovolge provocatoriamente lo schema umanistico: Pinocchio non acquista la sua libertà liberandosi dal legno per divenire carne, ma la perde perché perde la forza ostinata del legno. Egli denuncia come l’assoluto male coloro che vogliono fare il nostro bene. La sua lettura di Pinocchio è anarchica; il racconto di Collodi è quello di una repressione organizzata: la vita selvatica del legno deve essere abbandonata per lasciare il posto a carne addomesticata. Il Topo ribalta le leggi dell’evoluzione: meglio il legno della carne, meglio la libertà della mera sopravvivenza della vita. Il polo di legno è un popolo che resiste? Anche il fuoco acceso dalla parola del Topo è destinato a spegnersi.
Come l’alone magico che la presenza della fatina lascia ogni volta che appare prima di scomparire. «Non c’è nessuna opera umana che possa davvero dirsi compiuta, rifletté il Topo, è così che facciamo le cose, con quel residuo di imperfezione che è come un amuleto cementato nel muro, il sigillo della vita che continua».
IL LIBRO Il popolo di legno di Emanuele Trevi (Einaudi pagg. 192 euro 18)