mercoledì 21 ottobre 2015

Repubblica 21.10.15
Parla lo scrittore Amitav Ghosh. Esce l’ultimo volume della trilogia dove racconta il conflitto anglo-cinese simile agli scontri commerciali di oggi
“Dalla guerra dell’oppio è nata la crisi globale”
di Susanna Nierenstein


Leggere “Diluvio di fuoco” di Amitav Ghosh, il capitolo finale della grandiosa trilogia iniziata con “Un mare di papaveri” e proseguita con “Il fiume dell’oppio” — per non parlare dei tanti romanzi scritti in precedenza — , significa vivere tra mercanti e fumatori d’oppio ottocenteschi, raja caduti in disgrazia, eserciti composti da indiani/sepoy orgogliosamente agli ordini di sua Maestà e londinesi dal piglio aristocratico, lascari islamici, cinesi armati di frecce e giunche dai cannoni approssimativi. Significa vedere eserciti che assomigliano a parate dai mille colori, seguiti da portatori d’acqua, approvvigionatori di alimenti, elefanti e donne del bazar, vuol dire passare per mare da Calcutta a Singapore e Hong Kong, e risalire il Fiume delle
Perle fino a Canton. Assistere a vittorie e sconfitte, mentre intorno risuonano mille lingue. E in mezzo a questo grande spettacolo ritrovare i fili rossi di personaggi che già conoscevamo, e ora intessono nuovi amori, rancori, muoiono, fanno progetti, si perdono, si rincontrano. Che meraviglia. È un affresco in movimento, un film, con i suoi primi piani e le sue vedute d’insieme, lungo 700 pagine, che ha alla base un lavoro di ricerca sconfinato.
Il cuore della storia è la Prima Guerra dell’Oppio, e inizia nel 1839, quando la Cina inasprisce il divieto di commercio dell’oppio che la Gran Bretagna sta portando in quantità dall’India. La tensione è all’apice, Londra e mercanti di mille nazionalità hanno troppi interessi in ballo, l’Imperatore cinese invece vuole tenere duro anche se il divario tecnologico tra l’esercito britannico e quello cinese è drammatico.
Mr. Ghosh, davvero la trilogia non avrà un seguito? Perché si è fermato qui?
«No, ho finito. Anche se non credo che i protagonisti se ne andranno facilmente, fanno ancora parte della mia vita. Poi in futuro si vedrà».
Si ricorda come iniziò questo romanzo monumentale?
«Certo che mi ricordo. Era sei mesi che scrivevo, e capii che volevo creare una storia multigenerazionale: sarebbe dovuta finire all’inizio del ‘900. Invece ho lavorato 11 anni su 1600 pagine e il tempo del racconto copre solo 48 mesi. Dovevo fermarmi».
In questo romanzo siamo molto spesso in Cina. Perché la Guerra dell’Oppio è così importante per lei?
«Non per me, ma per il mondo com’è oggi, era in gioco la fondazione dell’economia globale moderna, una guerra in nome del libero commercio dette inizio a un certo tipo di imperialismo. Ho cominciato il libro nel 2004, subito dopo la guerra in Iraq e ho capito che c’erano tante incredibili somiglianze: nell’Ottocento gli inglesi dicevano che sarebbero stati accolti a braccia aperte dai cinesi in nome della libertà e della fine dei tiranni manchu, così come l’America del terzo millennio diceva avrebbero fatto gli iracheni felici di abbattere Saddam e la sua dittatura. All’inizio non sapevo che avrei trovato questi parallelismi, volevo solo scrivere dei lavoratori indiani che si muovevano per mare. Poi toccando la Cina cambiò tutto ».
Lei pensa che i britannici furono per l’India solo dei conquistatori brutali?
«Non si può rispondere a questa domanda, è come se lei chiedesse a un nativo americano se l’arrivo di Colombo significò anche qualcosa di buono per loro».
Pure il libero commercio è nel suo mirino, è il simbolo dell’imperialismo. Ma lei crede che ci fossero, che ci siano, altre possibilità per raggiungere qualsiasi tipo di sviluppo?
«Il libero commercio valeva solo per gli occidentali. La Cina e l’India commerciavano già da tempo, la prima controllava il 24% del mercato mondiale, la seconda il 2%. I britannici riuscirono a distruggere l’industria locale. Era un imperialismo di puro sfruttamento. Che immetteva droga. Non aveva niente a che fare col progresso. Non a caso, dopo che l’India è diventata indipendente si è ripresa economicamente ».
I suoi romanzi sono una cascata di storie, avventure, battaglie, amori, come il grande romanzo, o il feuilletton ottocentesco: da dove vengono?
«Non riesco a spiegarlo, mentre sono seduto a scrivere arrivano le idee. Faccio la doccia e mi si accende una lampadina, soprattutto sogno a occhi aperti, lascio andare il pensiero, l’immaginazione, anche se con l’età è più difficile non porre freni alla mente, essere leggero, un po’ pazzo».
Scrive a mano, credo.
«Sì, al computer davvero non potrei. Lavorare con la penna aiuta per la sua lentezza, la tattilità, è come se le idee potessero spingere su qualcosa di concreto e prendere forma».
Mi potrebbe spiegare cosa c’è in comune tra uno storyteller come lei e un moderno scrittore introspettivo, che so, Philip Roth?
«Ha ragione, non abbiamo niente in comune, né io con lui, né io — e molti altri indiani o asiatici — con tutta la letteratura anglosassone moderna rivolta solo all’interiorità. Facciamo due lavori diversi, mi sento molto più vicino a Melville o a Zola. Il mio impegno è quello di concettualizzare, concepire la collettività, le relazioni tra le persone. E poi i miei libri non guardano solo all’umanità, il rapporto con la natura è molto presente, come in Melville appunto. In questo periodo ad esempio mi interrogo molto sui cambiamenti del clima, lo avverto come un problema fondamentale ». Quante lingue sa, a quanti paesi appartiene? Un suo personaggio dice che le idee, i linguaggi rendono più soli, perché distruggono ogni appartenenza istintiva. È così che
si sente?
«Per niente, più vedo il mondo più mi sento indiano. Anche se conosco il bengali, l’hindi, l’inglese e parlo un po’ di francese e arabo».
Nella sua trilogia ci troviamo in mezzo a mille voci: è come entrare in un coro. Come ha concepito questa babele?
«Volevo dare al lettore questo spazio diverso, creare una trama sonora, linguisticamente eterogenea. So che molti avvertono una sorta di disorientamento. Ed è vero, ma non è necessario capire le parole. L’importante è sentirle».