martedì 20 ottobre 2015

Repubblica 20.10.15
Le armi di uno storico contro le manipolazioni
Nel suo nuovo libro, Paolo Mieli mette in fila gli abusi in cui si può incorrere ricostruendo il passato. Dal complottismo alle amnesie
di Concetto Vecchio


Secondo recenti sondaggi il 75 per cento degli americani ritiene che l’omicidio del presidente John Kennedy non fu opera solo di Lee Oswald. Lo scrittore Vincent Bugliosi in Four Days in November si è preso la briga di censire tutte le tesi sorte attorno al delitto, e ne ha scovate 42, per un ammontare di ottantadue killer e duecentoquattordici persone, che secondo questo o quel complottista, avrebbero partecipato in qualche modo all’ideazione dell’assassinio.
Ora, verrebbe da dire con una certa consolazione, il complottismo non è quindi solo una malattia italiana, basti pensare all’inesauribile fioritura di ipotesi, misteri, gialli, che periodicamente spuntano sul sequestro Moro, e che a loro volta figliano libri, film, ricostruzioni giornalistiche, in genere rapidamente smentite dalle inchieste della magistratura, com’è accaduto di recente con le rivelazioni contenute nell’ultimo saggio-verità dell’ex giudice Ferdinando Imposimato.
Ora Paolo Mieli nel suo L’arma della memoria (Rizzoli) mette in fila tutti gli usi che si possono fare della memoria, e suddivide il suo lavoro in tre grandi temi: la storia adulterata, la storia manipolata, la storia frantumata. È un libro, il suo, che offre più piani di lettura. In primo luogo è una carrellata di 33 densi racconti, molti dei quali pubblicati sulle pagine del Corriere della Sera , che vanno dalla contesa tra Aiace e Ulisse per le armi di Achille alla riapertura dell’inchiesta di Antonio Ingroia sul caso Giuliano. In secondo luogo è soprattutto una riflessione di metodo, sul metodo. Sul perché si ricorda una certa cosa invece che un’altra. Su come la memoria venga piegata continuamente alle ragioni della politica — quasi sempre forzandola, o peggio reinventandola — come dimostrano le pagine sulle origini del nazionalismo etnico. Sui rischi della storiografia dei magistrati (dalla scomparsa di Majorana al processo Andreotti), sui luoghi comuni, sulle verità consolatorie. Prendiamo il capitolo sul rapporto tra gli Alleati e la Resistenza italiana. Nella maggior parte dei libri di storia è sedimentata l’idea che gli angloamericani diffidarono del nostro movimento partigiano, al punto da imbrigliarlo, lesinando aiuti. Sulla scorta del lavoro dello storico Tommaso Piffer Gli Alleati e la Resistenza italiana , Mieli smonta questa tesi, e dati e testimonianze alla mano, prova a ricostruire l’origine del pregiudizio, affermando che in ripetute occasioni gli inglesi hanno invece avuto parole di elogio per i comunisti italiani, così diversi da quelli che avevano conosciuto in Grecia e Jugoslavia.
Mieli è attratto dalle contraddizioni, dai chiaroscuri, mette in guardia dai ricordi a tesi, dalle contraffazioni, dalle amnesie. Scrive: «La verità è che la storia, anche quella che ci viene raccontata attraverso i miti, bisogna imparare a leggerla nelle sue infinite sfumature». Insomma, la storia non può mai essere consolatoria, come una bandiera da sventolare, ma va contemplata anche nei suoi aspetti più sgradevoli, anche se questi cozzano con la memoria ufficiale. Il rischio del revisionismo, verrebbe da obiettare, in questi casi è sempre in agguato, ma non è certo questo il pericolo che corre l’autore.
IL LIBRO Paolo Mieli,
L’arma della memoria. Contro la reinvenzione del passato (Rizzoli, pagg. 432, euro 20)