lunedì 19 ottobre 2015

Repubblica 19.10.15
Il Pd e il bivio delle primarie
di Piero Ignazi


CANDIDATO sindaco cercasi? Non siamo ancora nella situazione in cui si sono trovate Danimarca e Norvegia alcuni anni fa, quando i partiti dovettero ricorrere ad annunci sui giornali per trovare dei candidati per i consigli comunali. Eppure, serpeggia una certa inquietudine nei quartier generali dei partiti italiani. Il processo di selezione delle candidature si è inceppato e, persino il Pd, il partito più forte e organizzato, sembra subirne i contraccolpi. Le ragioni di questa difficoltà sono diverse. Per i piccoli partiti si affaccia, per la prima volta, il rischio dell’irrilevanza. La spinta del partito democratico verso una posizione dominante (nessun partito ha mantenuto per tanto tempo un consenso, nei sondaggi, intorno ad un terzo dell’elettorato) il cui unico contrappeso sembra dato dai 5Stelle, isterilisce l’appeal delle altre formazioni, in particolare quelle della destra. La confusione delle lingue tra Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia intorno alle candidature nelle grandi città per le sfide dell’anno prossimo dipende anche da questa ansia sottile di essere tagliati fuori dalla competizione. In più, questi partiti, con l’eccezione della Lega in qualche ridotto del lombardo-veneto, non hanno mai curato l’organizzazione a livello territoriale, confidando nelle virtù taumaturgiche del “capo”. Ora raccolgono i cocci e, non avendo più risorse di potere spendibili per attrarre e gratificare potenziali candidati, devono contare sul militantismo spassionato. A volte funziona, vedi Venezia, ma quel caso non fa testo (e la Liguria è un altra storia).
Se la destra è a rischio irrilevanza e quindi, comprensibilmente, è in affanno nella ricerca di buoni candidati, il Pd soffre di un dilemma diverso. In teoria non dovrebbe avere problemi perché il partito democratico dispone di una organizzazione tuttora forte e ramificata che, seppur dimagrita, recluta centinaia di migliaia di iscritti. Invece, ora, riflette in pieno la contraddizione tra la personalizzazione della politica, che con Matteo Renzi è diventa la cifra dominante del partito, e la “gestione” del reclutamento degli amministratori locali. Un tempo i partiti, e soprattutto quelli fortemente strutturati, filtravano le potenziali candidature. Il cursus honorum prevedeva vari passaggi nell’attività politica — segretario di sezione, responsabile di un dipartimento, consigliere di quartiere, ecc. — prima di arrivare a compiti più importanti. Contro questa filiera interna è stata brandita l’arma delle primarie. La scelta doveva essere affidata ai cittadini, non più agli organi di partito. Basta con le stanze chiuse dove i maggiorenti decidevano tutto, via all’intervento della società civile. Con il risultato, imprevisto, di favorire, da un lato, i notabili locali, collettori di reti di consenso personale, e dall’altro, i cavalieri solitari che competono senza essere stati “socializzati” alla vita, alle regole, alle finalità stesse, del partito che intendono rappresentare.
La personalizzazione e l’individualizzazione della competizione per ottenere una candidatura, insite nelle primarie, hanno depresso il ruolo del partito. Certo, Matteo Renzi è un leader assertivo (per usare un eufemismo) ed ha rinverdito, di fatto, il primato della politica sulla società civile. Ne consegue che, adesso, vorrebbe determinare le scelte con un processo decisionale interno, lungo linee partitiche. Un ritorno al passato, per certi versi. Ma lo spirito delle primarie è uscito dalla lampada e la domanda di partecipazione diretta alle scelte non si spegne. Lo stesso premier ha dovuto far marcia indietro quando aveva fatto circolare la voce che a Roma decideva lui. Il Pd oscilla quindi tra una rivalutazione del ruolo di selezione affidato alle strutture interne e una fedeltà al brand del partito delle primarie. Nella leadership democrat si affaccia l’idea che la fase eroica delle primarie sia al tramonto: sono servite per scardinare il vecchio sistema di potere e rinnovare la classe dirigente, ma ora rischiano di lasciar campo libero a qualsiasi ambizione personale e desertificare il territorio un tempo presidiato dal partito. Un rischio serio perché i danni che vengono dal deperimento in atto delle strutture partitiche sono pesanti: se esse affondano, il Pd perde la capacità di formare e selezionare una classe politica dotata di un preciso profilo politico-culturale. Con la conseguenza di presentare alle prossime sfide elettorali candidati sfocati, indistinguibili dai competitori o per eccessivo populismo, o per eccessivo moderatismo. E quindi destinati alla sconfitta perché privi di identità.