giovedì 15 ottobre 2015

Repubblica 15.10.15
Elie Wiesel.
“Israele non vuol dividere la città ma solo fermare la violenza”
Il premio Nobel per la pace: “I controlli dei transiti tra est e ovest sono una misura necessaria ma temporanea. I leader siano coraggiosi: l’accordo è possibile”
intervista di Andrea Tarquini


Il presidente dell’Anp dice che l’intesa di Oslo è morta? Ma resuscitarla dipende anche da lui Bibi non rinunci mai a pensare a grandi gesti per rilanciare il dialogo con i palestinesi A Gerusalemme hanno sempre convissuto etnie e religioni diverse: questo clima non cambi

BERLINO «Certo, chiudere transito e accessi tra Est e Ovest di Gerusalemme è una misura radicale, drammatica. Però se Israele la ritiene necessaria per la sicurezza ha fin troppe buone ragioni, e sono convinto che sarà temporanea. Israele vuole la pace, credetemi. Il mio consiglio al primo ministro è non mollare mai, tentare sempre nuove vie, anche quando il presidente dell’Anp Abu Mazen dice che Oslo è morta». Così ci dice al telefono il professor Elie Wiesel, premio Nobel per la pace per una vita d’impegno per il dialogo in Medio Oriente e ovunque, sopravvissuto ad Auschwitz, tra le massime autorità della cultura ebraica.
Professor Wiesel, Gerusalemme quasi divisa da nuovi check-point dei militari israeliani dopo l’omicidio di tre ebrei martedì da parte di palestinesi e il dilagare dell’Intifada dei coltelli: che ne dice lei che si batte da sempre per un accordo e per il dialogo tra le due parti?
«Difficile in questa situazione seguire gli sviluppi ogni istante. Certo è una misura drammatica, ma mi sembra anche confermare il fatto che per Israele la sicurezza è molto importante, è prioritaria. E Israele ha tutte le buone ragioni per garantire al meglio l’incolumità dei propri cittadini, come Stato sovrano e come società democratica».
Ma da anni e anni israeliani e arabi erano abituati a una Gerusalemme a suo modo città unita, spesso anche a frequentarsi. La nuova situazione di tensione può compromettere tutto questo?
«È vero: da anni, pur dando la priorità giustissima alla sicurezza dello Stato d’Israele, a Gerusalemme si erano abituati a passare e tornare indietro, nei due sensi. E’nata, pur in un clima di guerra, la sensazione collettiva di una città unita, seppur nel suo modo unico, ma condivisa dal mondo. La sicurezza è decisiva, però sento che sarà una misura temporanea. Sono convinto che Israele non vuole dividere la città tra due mondi. A volte bisogna decidersi a misure estreme, ma Gerusalemme dove culture, etnìe, religioni convivono, persino col nuovo tram ovest-est, è diventata parte costitutiva dell’animo collettivo di Israele».
Ong come Human Rights Watch sono molto critiche: sparano a zero sull’abrogazione della libertà di movimento nella città, che risponde?
«Rispondo semplicemente che non sempre Human Rights Watch si è mostrato comprensivo verso le ragioni di Israele e la difficilissima situazione che Israele affronta. Spesso anzi l’organizzazione, nelle sue prese di posizione pubbliche, si è mostrata parziale, tendenziosa. Ciò rende meno interessanti e rilevanti le sue dichiarazioni, almeno per me».
Abu Mazen e le autorità palestinesi dicono che adesso il processo di pace di Oslo è ormai morto. Condivide la loro opinione o no?
«Se Oslo è morta, o se può essere risuscitata, dipende da tutti, anche da loro. Se Abu Mazen dice che Oslo è morta, forse lo dice perché è quanto egli vuole. Tocca anche a lui scegliere interlocutori e obiettivi».
Shimon Peres da presidente disse che Israele dopo tante guerre deve vincere la pace. Ma adesso è ancora possibile?
«La questione non è se Israele voglia vincere la pace: io sono assolutamente sicuro che sì, lo vuole. La questione è come sia possibile. E’ a volte una delle cose più difficili, da quando il genere umano esiste, perché al contrario della guerra, quando si vince la pace nessuna delle due parti può accettare sconfitte. Ma appunto, affrontare sfide durissime come questa e superarle è parte della Storia del genere umano».
Vivendo in allarme di sicurezza permanente, non le sembra che Israele rischi di perdere la sua anima?
«Al tempo: chiediamoci se quando i partigiani francesi o italiani o di altri paesi occupati da Hitler sparavano contro soldati nazisti potevano permettersi il lusso di temere di perdere l’anima, chiediamoci quanti, allora, si ponevano domande sulla sopravvivenza dell’anima del popolo ebraico».
In passato diversi premier israeliani – da Begin a Rabin – si decisero a grandi gesti in nome della pace. A Netanyahu cosa consiglia?
«Io gli consiglio di non dimenticare quei grandi esempi che furono eventi costitutivi della Storia d’Israele, e quindi di non mollare mai, cioè di non rinunciare mai a pensare a grandi gesti per tentare di rilanciare il processo di pace».
La società israeliana ora rischia una crisi d’identità?
«Non credo. Gli ebrei hanno oltre 4000 anni di Storia alle spalle, nel corso di questi quattro millenni hanno affrontato e superato minacce alla loro identità davvero infinitamente più pericolose di quelle poste dalla crisi di queste ore».
Questa situazione può alimentare l’antisemitismo in Occidente?
«Negli Usa no. In Europa chi sa, ma l’antisemitismo europeo contemporaneo non ha bisogno di ragioni concrete per attizzare odii secolari contro ebrei e Israele».
L’Occidente non dovrebbe fare di più per aiutare il processo di pace?
«Primo, dovrebbe ricordare sempre che Israele è Stato sovrano, non accetta imposizioni. Secondo, mi creda: anche a parte la missione di Kerry gli Usa non hanno mai smesso in segreto di fare di tutto per tentativi e iniziative di pace, per loro sono priorità nazionale anche prima e dopo l’accordo nucleare con l’Iran. Semmai è l’Europa che è molto sbilanciata dalla parte di Abu Mazen».