Repubblica 11.10.15
Contro di lui la rabbia dei manifestanti che hanno innalzato i cartelli con la scritta “Assassino”
I tormenti di Erdogan stretto tra la Siria e un paese sull’orlo del caos
di Bernardo Valli
Quei cadaveri sul selciato, in prossimità della stazione di Ankara, alcuni coperti dalla bandiera giallo- viola-verde del partito curdo moderato (HDP), sono una tragica immagine della sanguinosa mischia siriana che dilaga al di là dei confini, e coinvolge i paesi vicini. Questa è stata la prima impressione davanti al massacro (95 morti e quasi duecento feriti) ripreso dalle telecamere e poi offerto agli occhi del mondo come una trasmissione non fiction ma reale sull’orrore.
La Turchia, fino ad alcuni anni fa esempio di successo economico e di democrazia, di una democrazia per ora non sufficiente per l’Unione Europea ma comunque insolita in Medio Oriente, è adesso travolta da un’ondata di terrorismo, simile a una massa di lava vomitata da un non lontano vulcano in eruzione. La prima reazione spontanea portava a questa conclusione ed anche all’implicita solidarietà con il paese ferito.
Così nella capitale ancora sanguinante, e soprattutto a Istanbul, la metropoli a cavallo dell’Asia e dell’Europa, si esprimeva il cordoglio ufficiale, si decretava un lutto di tre giorni, e si rendevano pubblici i messaggi di solidarietà delle capitali amiche e alleate.
Al tempo stesso si moltiplicavano tuttavia i dubbi. Ci si interrogava sulla possibilità di tenere le elezioni parlamentari indette per il primo novembre, dopo che quelle tenute in giugno non hanno dato al partito islamico, Giustizia e Sviluppo ( A.K.P), una maggioranza per governare, né la possibilità di trovare alleati. Come tenere i comizi? Come raccogliere folle di elettori sulle piazze con il ricordo dei kamikaze di Ankara? Come creare la sicurezza e la quiete capaci di garantire un voto affidabile, onesto, non influenzato dalla paura e dalle emozioni suscitate ad arte?
Tutti interrogativi sovrastati dalla domanda essenziale. Chi erano gli autori dell’attentato? Chi erano i due kamikaze, che pare siano stati visti più che individuati, e chi erano i mandanti? Su questi punti il mormorio è fitto. Numerosi i sospetti. Tante le indiscrezioni. Lo sguardo è rivolto d’istinto a Daesh (l’acronimo arabo per lo Stato Islamico), al Califfato che imperversa nella limitrofa Siria e contro il quale si è pronunciato il governo di Ahmet Davutoglu, sul quale domina la figura del presidente Recep Tayyip Erdogan. E a questo punto, nell’attesa di una rivendicazione che forse non arriverà mai o della quale bisognerà subito discutere l’attendibilità, emerge un giallo con risvolti politici e strategici. Un giallo difficile da risolvere, e da spiegare, se si rispetta il diritto alla presunzione di innocenza.
Il regime di Erdogan ha tardato prima di concedere agli americani le basi aree dalla quali far partire i droni e i bombardieri diretti in Siria e in Iraq per colpire Daesh. Pur essendo membro della Nato non si è schierato subito con gli alleati e ha lasciato una certa libertà di movimento agli uomini dello Stato islamico lungo i confini turchi. In particolare dove si scontravano con i curdi delle regioni del Sud-Est della Turchia, suoi veri avversari. E tali sono, in particolare, quelli affiliati al rivoluzionario P.K.K. (Partito dei lavoratori curdi) con i quali alterna tregue e confronti armati. Al punto che mentre concedeva le basi agli americani perché bombardassero i terroristi dello Stato islamico, mandava la sua aviazione a colpire i curdi trasferitisi in Iraq dalla Turchia per battersi a terra contro lo stesso Stato islamico, in sostanza come fanteria dell’aviazione americana.
Per i suoi avversari Erdogan è un maestro del principio secondo il quale gli amici dei miei alleati possono essere i miei nemici. Il presidente turco ha l’impervio compito di adeguare le esigenze del potere: i problemi di politica interna a quelli contrastanti di politica estera. I curdi saranno pure i fanti dell’aviazione yankee, ma sono i suoi avversari in patria. Lo sono anche quelli moderati del Partito democratico del popolo, la cui bandiera giallo- viola- ver- de copriva i corpi dei manifestanti pacifisti uccisi ad Ankara. E, ancora, quel partito curdo alle elezioni di giugno si è imposto, riducendo la maggioranza assoluta di Erdogan a una maggioranza relativa insufficiente per governare. L’insuccesso ha mandato all’aria l’ambizione di cambiare la costituzione in senso autoritario, grazie agli indispensabili due terzi del Parlamento.
La lista dei tormenti di Erdogan potrebbe essere estesa al difficile rapporto con la Russia di Putin e con l’Iran degli ayatollah. Entrambi forniscono gas e petrolio alla Turchia, e promettevano investimenti. All’improvviso appartengono una coalizione non nemica ma concorrente, non amica. La Turchia, non più sull’onda di una folgorante crescita economica, rischia di perdere due importanti clienti e fornitori.
Per conservare rapporti in contrasto con le alleanze imposte dalla guerra in corso nella vicina Siria, Erdogan deve disporre di un potere tanto forte da consentire la necessaria ambiguità.
I manifestanti che ieri sera percorrevano le strade di Istanbul avevano in mente le delusioni, le angosce, del loro presidente, e le sue supposte intenzioni di una rivalsa, dopo le sconfitte elettorali. E a lui affibbiavano sbrigativamente il titolo di “assassino”, credendo così di risolvere, sull’onda della collera, senza riferirsi a fatti concreti, in modo arbitrario, il giallo del massacro di Ankara. Il quale resta irrisolto.
Aggiudicavano a Erdogan una generica responsabilità. Comunque sulle piazze era accusato dagli avversari di voler creare uno spirito patriottico (la Turchia aggredita) al fine di creare il primo novembre un voto in suo favore. I suoi partigiani,in massa, esaltavano invece la sua figura di uomo forte, capace di difendere il paese ferito.
Gli umori profondi del paese, dove l’anima laica della società si scontra nei momenti di tensione a quella islamica, appaiono in questo momento in grande agitazione.
Tanto da immagire improbabile che si possano tenere elezioni tra venti giorni. Anche se la data è stata ribadita con apparente fermezza subito dopo il massacro di Ankara.