venerdì 9 ottobre 2015

La Stampa 9.10.15
Nobel
Il premio svedese assegnato per la sua “opera polifonica monumento alla sofferenza e al coraggio del nostro tempo”
Svetlana Aleksievich, voce della Russia sommersa
di Cesare Martinetti


Una piccola e semplice donna russa si prende oggi la prima pagina dei giornali del mondo. Appare così una fotografia rovesciata rispetto a quella della Russia di ieri con un Putin grottesco e trionfante nella divisa della squadra di hockey che alzava al cielo una coppa di vetro e di latta inventata per celebrare i suoi 63 anni. La piccola donna si chiama Svetlana Aleksievich, di anni ne ha 67, è nata in Ucraina, ha vissuto quasi sempre in Bielorussia. L’Accademia di Svezia le ha riconosciuto il Nobel per la letteratura premiando la sua «opera polifonica, monumento alla sofferenza e al coraggio del nostro tempo». La sofferenza di quel popolo va oggi in prima pagina con lei. Uno schiaffo a Putin che fa la guerra sporca all’Ucraina, simbolo di quell’opzione sovietica sulla storia che non passa.

Svetlana Aleksievich non è Solzenicyn, non è Brodskij e nemmeno Pasternak (gli altri russi insigniti del Nobel), è una giornalista che la passione ha trasformato in scrittrice nel racconto della vita quotidiana dei russi: «Voci di strada e conversazioni da cucina». Un racconto che inevitabilmente ha carattere politico in un Paese dov’è il potere che dà la forma alla vita dei singoli. Un carattere che lei non ha nascosto incontrando ieri a Minsk i giornalisti: «Amo il mondo russo, non quello di Stalin e di Putin». E nemmeno quello di Lukashenko, il presidente bielorusso, che domenica prossima sarà eletto per la quinta volta. Nel 2010 Svetlana e i democratici avevano denunciato brogli, la repressione è stata durissima, centinaia di arresti e lei ieri l’ha ricordato: «Una catastrofe umanitaria, il ritorno di metodi staliniani, il mio Nobel va anche al nostro piccolo Paese schiacciato da una macina della storia».
La scelta del Nobel si presta così inevitabilmente a una lettura politica contemporanea, ma questa volta in modo più sottile che nel passato quando la letteratura fu parte del confronto Est-Ovest da Guerra Fredda. La sfida della Aleksievich non è quella titanica di Solzenicyn, anzi ne è l’opposto: una testimonianza esistenziale e pacata, spesso pronunciata sottovoce, sorseggiando il tè del samovar nei piccoli appartamenti delle krusciove delle sterminate periferie urbane come nelle isbe di campagna.
Dice Gian Piero Piretto, grande esperto di letteratura e società russa: «E’ una scrittrice coraggiosa, corretta e onesta. Il suo anti-putinismo è totale, ma non fa denunce roboanti, dà voce alle persone che non hanno voce nei media o nei manuali di storia. E le persone raccontano in totale libertà. Di qui la polifonia che le è stata giustamente riconosciuta dagli accademici del Nobel: racconti fatti di parole e di canzoni. I suoi romanzi sono composti di voci diverse, per lessico e per orientamento, si trova il nostalgico ossessionato, il fanatico stalinista, il democratico deluso…». Possiamo avvicinarla a qualche altro grande russo? «Forse solo a Shalamov, l’autore dei racconti della Kolyma, per asciuttezza e compostezza».
In fondo anche Svetlana viene dal Gulag, non quello fisico e storico, ma quello interiore, che «tutti noi ci portiamo dentro». L’homo sovieticus non è morto: «Gli sono vissuta accanto, abbiamo trascorso insieme molti e molti anni. Io sono lui». È in questa compagnia e grazie a questa identificazione che Svetlana ci dà un racconto straordinario e unico del contemporaneo post-sovietico. Ascoltate Tanja Kulesova, 21 anni, studentessa: «A sedici anni condannavo i miei genitori perché avevano sempre paura di qualcosa... pensavo che fossero degli stupidi e noi diversi... adesso anche io sono come loro: conformista. Secondo la teoria di Darwin a sopravvivere non sono i più forti, ma i più capaci ad adattarsi all’ambiente. Sono i mediocri che sopravvivono e continuano la razza».
È il Tempo di seconda mano, come si intitola l’ultimo libro della Aleksievich, briciole di vita russa dopo il crollo del comunismo. I primi anni 90, gli anni di Eltsin: «Un’epoca felice un decennio folle, anni terribili, il sogno democratico, il tempo del disinganno… pensavamo che salame fosse sinonimo di libertà. Per tutto ciò che è seguito siamo noi i colpevoli…».
Torna la voglia di comunismo? «Sono cresciuto in una famiglia di dissidenti... Era il ’91, e naturalmente ero nella catena umana intorno alla Casa Bianca, pronto a sacrificare la mia vita purché non tornasse il comunismo, pensavamo che fosse morto, per sempre». Ma come dice la scrittrice, «la perestroika la volevamo noi, l’élite, il popolo taceva. Putin ha parlato con la voce del popolo e si è scoperto che invece del futuro la gente preferisce il passato. E’ stata la scoperta più terribile degli ultimi anni»