La Stampa 23.10.15
Quel mondo romano di poteri e privilegi messo in crisi dalla svolta di Francesco
L’inconsistenza del complotto dimostra che il Vaticano sta cambiando
di Marcello Sorgi
La cosa che più colpisce del complotto contro il Papa è la sua inconsistenza. Davvero si poteva credere di far saltare il Sinodo con la storia del neurochirurgo giapponese che taroccava le immagini dell’udienza con il pontefice?
Perfino una certa Roma, papalina da sempre orfana del «Romano Pontefice», come lo si definiva nel linguaggio ormai scomparso della Curia tradizionale, oggi ammette a denti stretti che le manovre per far saltare il Sinodo sulla famiglia sono fallite. S’è risolta in una pochade l’outing della vigilia di monsignor Charamsa, dichiaratosi gay in presenza del suo compagno, e subito elevato a monito contro le aperture chieste da Francesco alla Chiesa. È diventata una mezza commedia, la lettera dei tredici prelati conservatori - tredici, va detto, su duecentosettanta partecipanti al Sinodo - che subito correvano a ritirare le firme o a dire che il testo pubblicato era diverso da quello concordato tra i dissidenti. E ha svelato tutte le sue debolezze anche la trama ordita sulla falsa malattia del Papa e sceneggiata ad arte: sussurri, cautele, tradimenti, elicotteri che atterrano in gran segreto in Vaticano, misteri su misteri, peccato che non sia un film.
A rifletterci, è esattamente questo il mondo romano che il papato di Francesco ha messo in crisi, con la sua trasparenza e il suo amore per i poveri. Il Vaticano come mondo di privilegi riservati a una particolare casta della Capitale, un pezzo di aristocrazia morente, un giro d’affari sempre esistente, un viavai di qua e di là dal portone di bronzo che immette nella città del Pontefice. In questo mondo, lo Ior, la banca vaticana che Francesco ha messo in liquidazione, dopo l’ennesimo scandalo che l’ha investita, era fino a qualche anno fa una specie di off-shore casalingo, con conti cifrati riservati a un giro ristretto di potenti. Le nomine dei cardinali, diventavano occasioni di competizione tra famiglie che si contendevano la confidenza di regalare ai nuovi principi della Chiesa il bastone ornato di brillanti simbolo del comando. Le cerimonie di beatificazione erano vissute come appuntamenti mondani: a quella di Wojtyla si brindava a champagne, sul tetto di uno dei palazzi delle prefetture di via della Conciliazione, affacciati su San Pietro. La carità era praticata come un dovere, a patto di non dover avere a che fare strettamente con i poveri che Francesco invece invita alla sua mensa.
Questa rete di potere nella Capitale era sopravvissuta anche alla fine della consuetudine dei papi italiani, ormai un ricordo di quasi quarant’anni fa, una tradizione archiviata dopo Paolo VI e la morte misteriosa di Papa Luciani nell’estate del ’78. Aveva accompagnato gli albori del papato wojtiliano, assistendo sgomenta all’attentato del 1981 e suggellando nel nuovo Concordato dell’84 la parte pubblica, e presentabile, di un compromesso che presto avrebbe rivelato i suoi lati opachi.
L’elezione di Ratzinger, dopo il regno infinitamente lungo di Giovanni Paolo non a caso era stata festeggiata come una vittoria: il cardinale tedesco, teorico del rigore della dottrina e dei valori non negoziabili, aveva trascorso a Roma trent’anni, al fianco del pontefice polacco, prima di salire sul soglio di Pietro. Il braccio di ferro che doveva portarlo alle dimissioni, dopo l’attacco aperto contro la sua imprevista volontà riformatrice, spinto fin dentro le stanze dell’appartamento papale, si era abbattuto completamente imprevisto sulle resistenze di quella parte di Curia, giunta al Conclave ancora stordita dalla decisione del Papa di lasciare. L’addio di Benedetto, la sua rinuncia, per mancanza di forze, ad affrontare i mali della Chiesa, avrebbe posto così le premesse per l’elezione di Francesco e l’inizio della sua rivoluzione.
Rivelatore della confusione in cui doveva essere precipitata la Gerarchia, di fronte alla novità di un Papa che sceglie di non vivere in Vaticano, è l’episodio, mai smentito, del cardinal Bagnasco, presidente della Conferenza dei vescovi, e del suo segretario Crociata, che il 13 marzo 2013 mandano per errore un telegramma di congratulazioni a Scola, candidato sconfitto nel Conclave, e non a Borgoglio appena eletto. Un atto mancato, si direbbe in psicologia, un indizio preciso del tentativo di restaurazione della Curia romana attorno all’impossibile ritorno di un pontefice italiano. Il resto è storia di questi mesi e di questi giorni: la crescita tumultuosa del consenso dei fedeli attorno a un Papa che rifugge da qualsiasi intermediazione, vive con i poveri, li accoglie a San Pietro, li nutre, li assiste, li fa perfino lavare sotto il colonnato del Bernini che abbraccia la basilica. Se solo si riflette sulla differenza di linguaggio di un uomo come monsignor Galantino, mandato a governare la Cei in attesa che Bagnasco esaurisca il suo mandato, o di un altro come monsignor Becciu, il vicesegretario di Stato che ieri ha twittato senza remore il suo stupore per il complotto, si può capire come la rivoluzione di Francesco sia ormai divenuta inarrestabile. E i primi a rendermene conto sono i suoi oppositori interni.
Si sbaglierebbe però ad aspettarsi dalla conclusione del Sinodo, che domani consegnerà al Papa le sue tredici relazioni, un improvviso capovolgimento, specie su materie delicate come la famiglia, tema centrale del Sinodo, il matrimonio, la possibilità di consentire ai divorziati e ai risposati di prendere la Comunione, o addirittura le unioni omosessuali (su cui peraltro la Chiesa sta facendo avvertire una ferma resistenza alla legge italiana che dovrebbe regolamentarle, in discussione attualmente in Parlamento). Francesco saprà dosare la necessaria cautela che la Chiesa deve avere nel toccare i suoi principi. Così il messaggio atteso dal Sinodo sarà, se possibile, il più temuto dal fronte degli oppositori interni mentre la Chiesa continua a riflettere, il destino dei singoli fedeli e le idee nuove, per affermarsi, hanno bisogno di uomini nuovi, che le sorreggano e le portino avanti.