venerdì 23 ottobre 2015

La Stampa 23.10.15
Troppe leggi favoriscono la corruzione
di Emanuele Felice


L’Italia ha livelli di corruzione anomali rispetto a ogni altro Paese avanzato. Le statistiche internazionali, come quelle fornite da Transparency International, lo certificano al di là di ogni ragionevole dubbio: nel 2014 ci ritroviamo ultimi in Europa, alla pari con Bulgaria e Grecia (che prima erano dietro di noi) e Romania; e siamo sessantanovesimi al mondo, con la Spagna che ci stacca di 32 posizioni, la Francia di 43, la Germania di 57. È forse questo il motivo per cui cresciamo meno? Sicuramente è un fattore determinante. La corruzione pesa come un macigno sulle nostre possibilità di ripresa, minacciando di trascinarci indietro, da quel traguardo di benessere e prosperità faticosamente raggiunto nel secondo dopoguerra, verso i magri standard di un’economia a medio reddito. E la corruzione sembra proprio, in questo nostro Paese, un male endemico. Gli ultimi episodi altro non sono che il nuovo anello di una lunga catena che attraversa tutto il territorio nazionale e tocca ormai un’impressionante varietà di ambiti, ben al di là della politica e del mondo degli appalti (ricordate Calciopoli?).
La corruzione è endemica, è vero, ma la si può sconfiggere, se si capisce da dove viene e si opera di conseguenza.
Come molti altri caratteri nazionali, non è insita nella natura di un popolo, ma rappresenta il risultato di un processo storico: da noi affonda nella Prima Repubblica, nella mancanza di alternanza che quel sistema imponeva e che, da un lato, ammaliava la politica con l’illusione dell’impunità, dall’altro (punto forse meno ovvio) costringeva élite e istanze fra loro conflittuali a convivere in un’unica area di governo, limitando la possibilità di realizzare innovazioni incisive perché bisognava accontentare tutti in una sorta di «compromesso senza riforme» (l’efficace definizione è di Fabrizio Barca). La mancata contendibilità e l’obbligo della coabitazione hanno generato un assetto istituzionale che favorisce la corruzione: perché segnato dalla permanenza ipertrofica di leggi e regolamenti, che gravano la funzione pubblica di intollerabili lungaggini e rendono i tempi della giustizia enormemente dilatati rispetto agli altri Paesi avanzati (basti pensare che i processi civili durano da noi il quadruplo della media Ocse; che per realizzare una grande infrastruttura ci vogliono dieci anni, contro i cinque del resto d’Europa); perché ha frammentato e reso via via più complesso il nostro ordinamento, scindendolo in molteplici amministrazioni parallele presentate come soluzioni tampone e spesso pensate per distribuire potere, che hanno finito per accumularsi come stati sovrapposti e in conflitto reciproco. Tale assetto istituzionale si è andato delineando con nettezza già fra gli Anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, e da allora non siamo mai riusciti veramente a riformarlo. Anzi, per certi versi le cose sono peggiorate, per l’abitudine che una certa politica approssimativa - anche quando meglio intenzionata - ha sempre avuto di mettere una toppa, piuttosto che affrontare i problemi alla radice: i diversi condoni, approvati o anche solo ipotizzati, hanno sistematicamente mandato segnali incoraggianti a chi viola la legge; la figura del commissario straordinario è stata ampiamente abusata tanto che ha finito essa stessa per dare adito a clientelismo e mala gestione, mentre le tare del nostro sistema amministrativo venivano lasciate libere di incancrenirsi.
Spesso poi la politica non era nemmeno bene intenzionata, ma divorata essa stessa da appetiti personali, complice un’opinione pubblica colpevolmente disattenta. Negli anni scorsi, alcune riforme del governo Berlusconi, come la depenalizzazione del falso in bilancio, sono andate nella direzione opposta a quella necessaria. E anche ai nostri giorni, alcuni fra i migliori slanci del Partito democratico si sono arenati nei diversi pantani territoriali di quella compagine - ultimo esempio, il recente suicidio del Pd romano.
Eppure qualcosa si muove. La leadership di Renzi, se risulta fiacca e contraddittoria sul piano locale, appare invece molto attiva a livello nazionale, nella più alta opera di revisione strutturale del sistema. Ad agosto è diventata legge una riforma della pubblica amministrazione davvero ambiziosa, che potrebbe ridurre grandemente i margini per la corruzione: semplificando le procedure, rendendole più trasparenti, disinnescando il conflitto fra i diversi enti, attribuendo più chiare responsabilità. Sottovalutata dai media, su questo giornale siamo stati i primi a prestarle la dovuta attenzione. Ma quella riforma ha bisogno di essere attuata. E attuata anche bene, con coerenza e mezzi adeguati, altrimenti gli effetti potrebbero essere addirittura controproducenti (come nel caso del silenzio assenso). I decreti attuativi, promessi dal governo a settembre, sono slittati; forse a novembre. Il tema gode, per così dire, dell’indifferenza generale. Ma noi lo ripetiamo: su questo si gioca una partita decisiva per il futuro dell’Italia.