martedì 20 ottobre 2015

La Stampa 20.10.15
“Israele, non basta un muro per fermare la nostra rivolta”
Il padre di un attentatore palestinese ucciso a Gerusalemme “Non temiamo il martirio”. Stop di Netanyahu alla nuova barriera
di Maurizio Molinari


«La gente di Jabel Mukabber conosce il nemico, non teme il martirio e vuole la Palestina indipendente, per questo mio figlio è diventato uno shahid». A parlare è Mohammed Aliyan, 60 anni, avvocato, padre di Baha che una settimana fa è stato ucciso nell’attacco ai passeggeri dell’autobus di linea 78 nel vicino quartiere ebraico di Armon HaNaziv.
Mohammed siede nella tenda del lutto assieme ai parenti di una famiglia che include anche gli Abu Jamal, genitori e zii di Alaa Daud, 32 anni, divenuto «shadid» - martire - nello stesso giorno di Baha, 23 anni, dopo aver ucciso a colpi di machete due israeliani nel quartiere di Gheula. «Erano entrambi figli di Jabel Mukabber - spiega Mohammed, riferendosi al posto dove vive da sempre - un quartiere che ha dato e darà molti martiri alla Palestina perché siamo i più vicini geograficamente agli israeliani, hanno costruito le loro case sulle nostre terre e appena facciamo una protesta pacifica ci sparano addosso, ma non ci pieghiamo, siamo gente forte». Nelle sue parole c’è l’orgoglio di una famiglia dalle origini beduine che aveva in Baha il suo «giovane leader» perché «amava lo studio, organizzava attività per i giovani, aveva aperto una libreria per il quartiere, era appassionato di letteratura straniera, viveva su Facebook e sognava una nazione democratica». In politica, aggiunge Mohammed, «mio figlio era nazionalista e religioso ma non estremista, pregava come fanno tutti i musulmani».
Il giorno prima dell’attacco al bus di linea, che ha causato un morto e 16 feriti israeliani, «aveva visto in tv le immagini di soldati che profanavano la moschea di Al Aqsa e di un bambino ucciso dai militari». Baha non disse nulla al padre quando, martedì 13 ottobre, uscì di casa «come faceva ogni mattina». Mohammed ha saputo dalla radio che «era diventato un shahid»: «In quell’istante mi si è chiusa la gola, ho pianto e al tempo stesso gioito per ciò che aveva fatto».
Nella tenda del lutto
Attorno a lui, sotto il tendone verde, i più giovani offrono tè e caffè ai visitatori. Sulle pareti drappi con i colori palestinesi si alternano alle immagini di Baha Aliyan e Alaa Daud Abu Jamal, sovrapponendo lutto e militanza. «I nostri due giovani appartenevano a una generazione a cui gli accordi di Oslo non piacciono, aspirano ad avere leader palestinesi nuovi, più forti e determinati di quelli attuali», assicura Mohammed, definendosi «padre di uno shahid». Davanti alla parole di Sheik Qaradawi, leader religioso dei Fratelli Musulmani, sulla «Jihad per Gerusalemme» e all’auspicio di Hamas per «una rivolta popolare che diventi militare», Mohammed prevede: «La rivolta continuerà, forse avrà delle soste ma non si fermerà negli anni a venire, con ogni tipo di armi» e dunque «se Israele vuole sicurezza deve ritirarsi, da Gerusalemme e dalla West Bank».
La decisione della polizia israeliana di posizionare un muro di cemento per dividere Jabel Mukkaber da Armon HaNaztiv -sebbene congelata dal governo Netanyahu - la giudica «una dimostrazione di stupidità». Ecco perché: «Gli israeliani pensano che infliggendoci punizioni collettive diminuirà il sostegno alla rivolta ma è vero il contrario, cresce la rabbia delle famiglie e aumenteranno i martiri». Quando parla, parenti e amici lo ascoltano mostrando rispetto. Vedono nelle sue parole il proseguimento del sacrificio del figlio. E Mohammed parla del futuro di Gerusalemme: «Se il mondo ci abbandonerà fra 20 anni questa città sarà del tutto giudaizzata, se i palestinesi continueranno a battersi otterranno la nostra terra perché il diritto alla resistenza contro l’occupazione è sancito dalla legge internazionale».