sabato 17 ottobre 2015

La Stampa 17.10.15
Gerusalemme unificata per la pace
di Abraham B. Yehoshua


Sono nato nel 1936 a Gerusalemme (città nella quale i miei avi vivevano già da cinque generazioni), quando nell’allora Palestina c’erano all’incirca 400 mila ebrei e gli arabi erano numericamente più del doppio rispetto a noi. Eravamo all’epoca del dominio britannico e nell’anno della mia nascita scoppiò una rivolta araba mirata a sradicare la piccola comunità ebraica dalla Terra di Israele. Ovunque c’erano morte e distruzione e se non fosse stato per le liti e i conflitti interni dei palestinesi, nonché per la repressione degli inglesi, quella rivolta avrebbe avuto successo.
Ricordo che, ancora bambino, chiesi ai miei genitori se avessero mai perso la speranza in quei giorni, se si fossero mai fatti sopraffare dalla disperazione, e loro risposero con fermezza: «No, non avevamo altra scelta che resistere».
Qualche anno dopo l’esercito nazista di Rommel arrivò a poche centinaia di chilometri dalla Terra di Israele e, nel caso l’avesse raggiunta, la comunità ebraica d’Israele sarebbe stata probabilmente spazzata via come le altre d’Europa. Sempre secondo fonti affidabili neppure in quegli anni la paura dell’esercito nazista si trasformò in disperazione e la piccola comunità ebraica si preparò a combattere con ogni mezzo, nel malaugurato caso che i tedeschi fossero arrivati fin qui.
Durante la guerra del 1948, che noi israeliani chiamiamo «guerra d’indipendenza», i quartieri ebraici di Gerusalemme rimasero sotto assedio per mesi. Disertori dell’esercito britannico al soldo degli arabi fecero esplodere autobombe nel quartiere dove io e la mia famiglia abitavamo, parti del nostro appartamento furono distrutte e mio padre rimase ferito. Per varie settimane fummo costretti a vivere in un rifugio antiaereo a causa dei bombardamenti dei giordani. Eppure, ricordo, tutti noi, adulti e bambini, mantenemmo alto lo spirito e non perdemmo la speranza.
Anche alla vigilia della Guerra dei sei giorni, nel 1967, quando tutti gli Stati arabi minacciavano di distruggere Israele causando allarme non solo in Medio Oriente ma in tutto il mondo occidentale, qui regnavano forza, determinazione e la certezza morale che saremmo stati in grado di contrastare qualsiasi minaccia. E in effetti la vittoria fu rapida, assoluta e ottenne l’approvazione di gran parte dei Paesi del mondo. Ma dopo la sconfitta degli eserciti di Egitto e di Siria e l’occupazione della Gerusalemme palestinese avvenne un cambiamento, una svolta profondamente legata alla città. Anziché infatti creare un’unica municipalità come prima del 1948, cercando di mantenere il rispetto e la collaborazione fra i residenti e decretando uno status speciale (religioso o internazionale) per il chilometro quadrato entro le mura della città vecchia (sede di luoghi sacri all’ebraismo, all’Islam e al Cristianesimo), il concetto di «liberazione», fuorviante e pretenzioso, prese il sopravvento su quello di «unificazione» nella coscienza politica israeliana, portandola ad anteporre pietre, edifici e colline agli esseri umani, in particolar modo ai residenti palestinesi di Gerusalemme, originari della città e discendenti da antiche famiglie qui residenti da secoli. E compito di questa «Gerusalemme liberata» avrebbe dovuto essere quello di fungere, per quanto possibile, da ostacolo, da sorta di barriera tra la Giudea, a Sud e la Samaria, a Nord, così da spezzare la continuità territoriale di un eventuale stato palestinese. Per raggiungere tale scopo le autorità israeliane cominciarono quindi a costruire quartieri ebraici nella zona orientale di Gerusalemme, inglobando nel suo territorio villaggi palestinesi mai appartenuti prima alla sua cerchia urbana. E se alla vigilia della Guerra dei sei giorni, nel 1967, non c’era nemmeno un palestinese nella Gerusalemme israeliana oggigiorno, nella città «liberata» capitale di Israele, vivono circa 250.000 palestinesi ai quali viene imposto questo stato di «libera occupazione». È vero che tutti sono in possesso di un documento di residenza (non di cittadinanza, beninteso) che garantisce loro diritti che palestinesi di altre zone occupate possono solo immaginare, tuttavia, rispetto ai residenti ebrei, questi gerosolimitani arabi si sentono cittadini di seconda classe nella loro città natale.
La folle e assurda ondata di atti di terrorismo perpetrati in questi giorni da parte di giovani attentatori palestinesi ai danni di cittadini ebrei potrà in qualche modo cambiare la concezione politica della leadership israeliana su Gerusalemme? Sì e no. Innanzi tutto va detto che l’attuale capitale d’Israele non potrà più essere politicamente divisa come prima della Guerra dei sei giorni. Quartieri palestinesi ed ebraici sono talmente mescolati gli uni agli altri e addossati gli uni agli altri che qualunque separazione amministrativa sarebbe inattuabile. Forse, però, sarebbe ancora possibile accantonare il falso concetto di «liberazione» e parlare più ragionevolmente di «unificazione». In primo luogo restituendo all’Autorità palestinese il controllo dei villaggi palestinesi annessi a Gerusalemme. In secondo luogo creando municipalità locali con poteri decisionali nei quartieri con una presenza relativamente omogenea di residenti palestinesi così da impedire nuove provocatorie infiltrazioni di integralisti ebrei. E, in ultimo, facendo rispettare l’assoluta autonomia dei luoghi sacri cristiani e musulmani che, in quanto appartenenti a minoranze, necessitano di speciale protezione.
Rimane tuttavia un grande interrogativo: Gerusalemme sarà l’ostacolo che impedirà la creazione di uno Stato palestinese a fianco di quello di Israele oppure diventerà il centro dello Stato bi-nazionale che un numero sempre maggiore di ebrei e palestinesi ritiene – con grande timore – ormai inevitabile?