domenica 4 ottobre 2015

Il Sole Domenica 4.10.15
Alle origini della scienza moderna
Rinascimenti copernicani
Storia dei molti lettori di Copernico, una folta famiglia vissuta tra il 1543 e il 1616, anni a cavallo di due secoli cruciali per l’umanità
di Massimo Bucciantini


Rivoluzione copernicana: facile a dirsi, difficile a farsi. Si potrebbe sintetizzare così il senso di questo libro. Anche contro le tante semplificazioni di oggi, visto che non passa mese che in politica e in economia non venga annunciato come imminente lo scoppio di una nuova rivoluzione copernicana.
È una classica storia in verticale quella qui tracciata. Pietro Daniel Omodeo indaga settant’anni di cosmologia e astronomia a cavallo di due secoli decisivi per le sorti dell’umanità, dove quei saperi sono inseparabili dalle filosofie e dalle teologie del loro tempo. E procede con passo spedito, ma ben equipaggiato e ben allenato ai lunghi viaggi, facendoci conoscere non solo gli attori principali ma anche i tanti personaggi spesso a torto considerati minori, alcuni dei quali pochissimo noti in Italia. E già questa mi pare una buona ragione perché il libro venga tradotto. A cui se ne aggiunge un’altra, e cioè che i libri in commercio su Copernico si contano ormai sulle dita di una mano. L’edizione einaudiana del primo libro del De revolutionibus orbium coelestium curata da Alexandre Koyré, con traduzione di Corrado Vivanti, è da tempo fuori catalogo, così come è ormai introvabile – sempre di Koyré – La rivoluzione astronomica, pubblicato da Feltrinelli nel lontano 1966, ma che per decenni è stato uno dei punti di riferimento obbligato per tutti coloro che si interrogavano sulle origini della scienza moderna. Altri tempi, si dirà. E in effetti da allora sono trascorse ere geologiche. Ma ci sono libri che debbono restare, anche solo per essere testimoni eccellenti di un certo modo di fare storia.
Ciò che subito colpisce è l’attenzione alla pluralità che scaturisce dai tanti modi in cui venne letto Copernico. Sono le differenze a essere giustamente evidenziate. Sono le molteplici interpretazioni a rendere peculiare questo lavoro. Che ha, secondo me, un’unica lacuna: quella di non utilizzare mappe e carte geografiche per farci vedere concretamente i percorsi e gli incroci di lettura a cui il De revolutionibus dette luogo. Un libro come questo si prestava magnificamente all’uso della rappresentazione cartografica, da intendere non come banale corredo iconografico, ma come inesauribile strumento conoscitivo.
La circolazione dell’opera di Copernico fu immediata e ramificata in mezza Europa. In pochi anni passò di mano in mano e fu avidamente letta e annotata non solo dagli addetti ai lavori. E ciò suona come un’ulteriore conferma del lavoro pionieristico compiuto da Owen Gingerich, astrofisico e storico dell’astronomia di fama internazionale, autore di un libro avvincente dal titolo Alla ricerca del libro perduto (Rizzoli). Nel 2002 Gingerich pubblicò i risultati di un censimento durato oltre trent’anni, in cui rintracciò i possessori di tutte le copie superstiti della prima e seconda edizione del De revolutionibus (1543, 1566), confutando definitivamente la tesi sostenuta da Arthur Koestler in uno scritto tanto fortunato quanto debolissimo e fazioso (The Sleepwalkers, 1959), secondo il quale l’opera a cui Copernico aveva dedicato la vita fu un clamoroso fallimento editoriale, un libro che nessuno lesse.
Attraverso l’esame di un numero impressionante di testi Omodeo ci restituisce la fotografia di un’epoca animata da un susseguirsi interminabile di discussioni filosofiche e controversie scientifiche. Abitata da un folto gruppo di persone, tutte in qualche modo protagoniste di questa grande avventura scientifica: la famiglia dei lettori di Copernico vissuta tra il 1543 – anno della sua pubblicazione – e il 1616 – anno della sua proibizione da parte della Congregazione romana dell’Indice. Una famiglia quanto mai composita, formata non solo da astronomi e matematici del calibro di Georg Rheticus, Christoph Rothmann, Michael Maestlin, Cristoforo Clavio, ma anche da teologi cattolici e riformati come Melantone e Bellarmino, e – per restare in Italia – da geografi, astrologi e filosofi come Girolamo Fracastoro, Francesco Giuntini, Giovanni Antonio Magini, Tommaso Campanella.
Le motivazioni che portano a leggere un testo come il De revolutionibus non sono solo di natura cosmologica. Sono anche ragioni astrologiche (per la formulazione di pronostici più affidabili) e soprattutto computazionali (per il calcolo delle effemeridi). Per non parlare poi degli echi che sul versante letterario la teoria eliocentrica ebbe in Italia, in Francia e in Inghilterra. Già a partire dalla metà del Cinquecento Anton Francesco Doni, Robert Record, Pontus de Tyard riprendono e fanno circolare nei loro scritti in volgare la “pazza” idea del moto della Terra. E a rendere ancor più complicata la ricezione di Copernico sta anche il fatto che il sistema eliocentrico venne da lui presentato come la restaurazione dell’antica cosmologia pitagorica, e quindi l’erede di una scuola filosofica che ammetteva il moto terrestre e una struttura matematica della natura che molti non erano disposti ad accettare perché in contrasto con l’aristotelismo dominante.
Tra i capitoli più interessanti del libro ci sono quelli dedicati ai matematici luterani allievi di Filippo Melantone. Erasmus Reinhold, Kaspar Peucer, Johannes Praetorius, per ricordare i maggiori, facevano parte del circolo melantoniano dell’Università di Wittenberg e considerarono Copernico il nuovo Tolomeo, il nuovo eroe, insieme a Regiomontano, dell’astronomia tedesca. Per loro l’adesione a Copernico non dipese tanto dalla sua cosmologia quanto dalle sue eccellenti doti di misuratore e calcolatore dei moti planetari, dall’aver liberato l’astronomia dalla schiavitù delle finzioni geometriche come l'equante: una lettura del De revolutionibus che non intaccava la tradizionale struttura geocentrica del cosmo, e lontana anni luce da quella realista che qualche decennio più tardi dettero Bruno, Keplero, Galileo.
Siamo di fronte a un libro per lettori esigenti che, non accontentandosi delle troppo lineari ricostruzioni manualistiche, sono disposti a inoltrarsi – e con gusto a perdersi – nell’intricata selva dei molteplici e immaginifici universi che popolano la seconda metà del Cinquecento e i primi decenni del Seicento. Una selva che a volte appare davvero inestricabile. E non solo per l’entrata in scena, trent’anni dopo Copernico, di un antiaristotelico ma strenuo difensore dell’immobilità della Terra come il danese Tycho Brahe. Ma perché quella che oggi chiamiamo rivoluzione copernicana è il risultato di diversi “copernicanesimi”. Bruno, Kepler, Galileo e Descartes non sono semplicemente i difensori di Copernico. Dal De revolutionibus essi traggono idee fondamentali come l’eliocentrismo e il moto dell’universo, spiegazione del moto dei pianeti, concezione della natura e della scienza – ciascuno di loro la pensa in modo completamente autonomo e spesso in modo antitetico.
Se fosse toccato a lui, a Copernico, trasformarsi in lettore e avventurarsi dentro ai loro scritti, sicuramente sarebbe stato in disaccordo su molte questioni. Anzi, si può scommettere che in certi casi, inorridito, non li avrebbe neppure finiti di leggere.
Pietro Daniel Omodeo, Copernicus in the Cultural Debates of the Renaissance. Reception, Legacy, Transformation , Brill, Leiden-Boston, pagg. XIII, 434, € 150,00