Il Sole Domenica 25.10.15
Canzoniere armeno
Il trovatore del genocidio
di Giuliano Boccali
Come i lettori ricorderanno, il Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale alla 56esima Biennale di Venezia, tuttora in corso, è stato assegnato alla Repubblica Armena; forse meno noto è che tutti gli artisti che hanno contribuito all’evocativa e articolata serie di esposizioni in mostra all’Isola di San Lazzaro appartengono alla diaspora. Una scelta intenzionale, che mira a suggerire una continuità con la grande civiltà mercantile armena fiorita fino alla fine del ’700 da tutto il Caucaso all’India e in parte anche in Europa. Ne erano centri principali Madras (oggi Chennai) in India e Tiflis (oggi Tbilissi), capitale della Georgia, dove i due terzi della popolazione erano costituiti da armeni «nobili e ricchissimi mercanti, ma anche famiglie di professionisti-artigiani e di più umili lavoratori e operai».
In quella società dalle strutture ancora feudali visse e scrisse il più grande trovatore caucasico del XVIII secolo, Sayat-Nova (probabilmente 1712-1795), di cui Ariele presenta il Canzoniere armeno a cura di Paola Mildonian; l’indicazione armeno non è ridondante, perché il poeta compose anche in georgiano e in azerì, sempre ispirandosi alle diverse e raffinate tradizioni dell’oriente sia islamico sia cristiano. L’opera è davvero un ricettacolo prezioso, che al tempo stesso ha inaugurato la poesia d’amore armena moderna; e magistrale per ricchezza di elementi sia storici sia critici è la presentazione della curatrice, comparatista di fama internazionale, già professore all’Università di Venezia “Ca’ Foscari”.
Dopo una gioventù dedita a vari apprendistati – la musica, ma a 14 anni era già anche un sarto provetto – e forse ad altre attività, militari o mercantili pure in terre lontane, il primo evento letterariamente e affettivamente saliente della vita di Sayat-Nova accade a 25 anni quando – così racconta – «entrando nella pubblica piazza, i miei occhi furono accecati da un incantamento»: è «la prima rivelazione poetico-amorosa» di una esistenza caratterizzata da alternanze anche drammatiche di fortuna. Intorno al 1742 «fu accolto a corte» come ashugh (trovatore) al servizio dei sovrani georgiani «ed esaltato per una decina d’anni, poi fu allontanato, quindi reintegrato, per essere definitivamente esiliato dopo sei o sette anni» sulle rive del Mar Caspio. È il periodo fra il 1752 e il 1759 e all’ostracismo si aggiunge l’imposizione della vita sacerdotale, sia pure come sacerdote sposato, accompagnato quindi dalla moglie e dai quattro figli. «… contro il mio volere mi hai rivestito del nero abito del lutto, / e senza mia colpa mi hai fatto bere questa coppa colma di veleno, / non c’è umanità nel tuo animo…» lamenta contro il principe che l’ha condannato. Così, uno dei temi principali del canzoniere è la lealtà, la fides, che permette a Mildonian l’acuto e commovente accostamento di Sayat-Nova alla vicenda di vita e alla poesia di Catullo. Il tema appare con questo timbro in una delle più accese canzoni della raccolta, la numero 8, forse omoerotica, ma soprattutto improntata al motivo del tradimento perpetrato dal “fratello”, la cui mente si è forse sperduta, il cui cuore si è intorbidato non curandosi dell’amico nel momento della disgrazia.
Quanto alla fedeltà alla parola data, assoluta è stata la coerenza di Sayat-Nova alla conclusione della sua vita: si è detto che era divenuto sacerdote per costrizione, mal tollerata. Ma quando, nel 1795, il monastero di Haghbat dove si era ritirato «fu conquistato e saccheggiato dalle truppe islamiche di Agha Muhammad Khan», il poeta non si sottrasse al martirio insieme con i suoi confratelli. Il tragico episodio storicamente si lega all’olocausto, o genocidio, degli armeni, iniziato a Istanbul nella notte fra il 23 e il 24 aprile 1915, di cui quest’anno ricorre dunque il doloroso centenario.
Naturalmente, però, il tema principale del canzoniere è l’amore, declinato in una suggestiva simmetria di risonanze analogiche fra le coppie amore-musica e donna-strumento. Come negli speculari testi 31 e 42: «Che t’importa di santur o kamancià, se fai risuonare i tuoi strumenti? / Nel tuo seno nutri le rose, le viole, il giacinto e il giglio. / A che serve il giardino al tuo signore? Il tuo profumo è quello del basilico. / Hai spiegato come vela i tuoi capelli, e li attraversa il vento, / il mondo è un mare, tu la nave che lo percorre e si culla sulle sue onde… Ninfea, fiore dei mari,… come resistere al tuo amore?». Ricorre qui anche il tema, amatissimo nella poesia persiana (e diversamente in quella indiana) dell’analogia archetipica fra il volto e il corpo della donna e le parvenze della natura. E come la donna amata, il kamancià, lo strumento prediletto a cinque o tre corde, è taumaturgico: «Orchestra perfetta, lodato fra gli strumenti…Tu volgi al sorriso il cuore più triste, plachi il tremore all’infermo; se intoni la voce tua dolce, / si schiude alla gioia il tuo danzatore».
Canzoni che sono appunto una danza di musiche e ritmi sofisticati, in un linguaggio “iridescente” dove mirabilmente si fondono modelli secolari, favelle e letterature diverse, invenzioni innovatrici, verità di vita.
Sayat-Nova, Canzoniere armeno, Edizione bilingue a cura di Paola Mildonian, Ariele, Milano 2015, pagg. 218, € 21,00.