domenica 25 ottobre 2015

Il Sole Domenica 25.10.15
La storia armena vista dall’India
La testimonianza di un paramedico bengalese arruolatosi nell’armata britannica sui massacri avvenuti attorno a Ras al-’Ain
di Amitav Ghosh


Il testo che qui proponiamo è la prima parte di un lungo saggio, leggibile nella sua interezza sul sito dell’autore: www.amitavghosh.com/docs/Shared_Sorrows.pdf

Gli armeni hanno un antico legame con l'India. Il più illustre cronista della comunità armena, Mesrob Jacob Seth, racconta che gli armeni si stabilirono ad Agra nel 16° secolo su esplicita richiesta di Akbar, il grande imperatore moghul, che sposò una donna armena, Mariam Zamani Begum. Quando gli inglesi giunsero alla corte moghul, gli armeni vi erano già solidamente insediati: fu grazie al loro aiuto che la Compagnia delle Indie orientali riuscì ad acquisire la giurisdizione del Bengala, un passo cruciale nella costruzione dell’impero britannico.
Calcutta, la città in cui sono nato, ha ospitato per lungo tempo la comunità armena più numerosa e vivace dell’India. Quando ero bambino gli armeni erano ancora una presenza importante nella città. Sentivo racconti su famosi pugili armeni; mio padre ricordava vecchi alberghi e pensioni un tempo gestiti da armeni; passavo nei pressi della scuola armena, che si trovava nello stesso edificio in cui era nato il romanziere inglese William Makepeace Thackeray.
Forse tali ricordi spiegano la presenza nei miei libri di personaggi armeni. Una delle figure chiave del mio romanzo Il cromosoma Calcutta è una certa Mrs Aratounian (a Calcutta c’era un albergo gestito da una famiglia con questo nome); e nei miei ultimi libri, Il fiume dell’oppio e Diluvio di fuoco , compare Zadig Karabedian, un fabbricante di orologi armeno che viene dall’Egitto (nipote di Orhan Karabedian, il pittore di icone la cui opera è tuttora visibile nella Mu’allaqa del Cairo).
Il mio mestiere è creare personaggi e inventare storie. Ma spesso lavoro su fonti storiche, e di tanto in tanto m’imbatto in qualcosa che serve a rammentarmi che la realtà supera talora la fantasia, tanto è inverosimile. Di sicuro non avrei mai potuto inventarmi una storia come quella che mi appresto a raccontare qui. I fatti risalgono agli ultimi anni della Prima guerra mondiale, quando gruppi di soldati e paramedici indiani furono imprigionati nelle vicinanze di Ras al-’Ain, nell’attuale Siria. Alcuni dei più gravi massacri del genocidio armeno accaddero nei dintorni di quella città, e per cause di forza maggiore la vita degli indiani s’intrecciò strettamente a quella degli armeni.
Conosciamo questa storia grazie a uno dei prigionieri indiani, Sisir Sarbadhikari, che quarant’anni dopo ha raccontato in un libro, Abhi Le Baghdad (In marcia verso Baghdad), le sue esperienze di guerra. Una copia del libro, autopubblicato nel 1958, fu depositata alla Biblioteca nazionale di Calcutta, e lì l’ho scovato.
Sarbadhikari era, come me, un bengalese di Calcutta, e apparteneva a una famiglia di classe media indù. Ciò accentua l’improbabilità della storia, perché all’inizio del 20° secolo le possibilità che un giovanotto con un simile retroterra arrivasse in prima linea durante una campagna militare erano pressoché nulle. I bengalesi infatti non avevano accesso all’armata indiana dell’esercito britannico, che reclutava i suoi soldati (o sepoy) solo tra le “razze” considerate marziali.
Un’esclusione doppiamente offensiva, perché si basava su umilianti stereotipi razziali e perché impediva l’accesso a una delle principali fonti di impiego nell’economia coloniale. Tale divieto tuttavia non riguardava il personale amministrativo e medico. Così, allo scoppio della Prima guerra mondiale, alcuni illustri bengalesi decisero che il servizio sanitario dell’esercito poteva essere un modo per sostenere il loro diritto di prestare servizio nell’esercito, e a tale scopo si offrirono di creare un’unità di volontari addetti alle ambulanze come contributo allo sforzo bellico. La proposta venne accolta, e nacque il Bengal Ambulance Corps (BAC), una piccola unità, solo 117 effettivi, al comando di cinque ufficiali inglesi e una decina di sottufficiali indiani.
Fu in tale unità che si arruolò volontario Sisir Sarbadhikari, nel 1915, poco più che ventenne e appena laureato.
Dopo tre mesi di addestramento i volontari del BAC furono mandati a Bombay per unirsi alla 6a Divisione Poona, diretta in Mesopotamia al comando del generale Charles Townshed. Lasciarono Bombay il 2 luglio 1915 a bordo di una nave ospedale, e una settimana dopo erano a Basra. Da quel momento accompagnarono la 6a armata nella sua rapida marcia verso Baghdad.
Nei primi mesi le forze anglo-indiane incontrarono scarsa resistenza da parte dell’esercito ottomano. L’avanzata filava così liscia che veniva descritta come “un picnic sul fiume”. Ma, poco a sud di Baghdad, la 6a armata fu bloccata e costretta a ripiegare su Kut al-Amara, una piccola città dove, dopo cinque mesi di assedio e con perdite spaventose, il 29 aprile 1916 il generale Townshed dovette arrendersi al comandante ottomano Khalil Pasha.
Il 12 maggio Sisir Sarbadhikari e altri prigionieri furono trasportati a Baghdad in piroscafo, e due mesi dopo in treno a Samarra, a un centinaio di km di distanza. Seguì una marcia a tappe forzate, nel calore bruciante dell’estate mesopotamica, in una regione inospitale, con pochissimo cibo e acqua. I resoconti inglesi parlano di fustigazioni, fame e terribili crudeltà. Anche Sisir parla di crudeltà e privazioni, ma il suo tono è stoico, quasi indifferente, e spesso si sofferma a riflettere sulla storia o a commentare la bellezza del paesaggio.
In venticinque giorni, i prigionieri marciarono da Samarra a Mosul, passando per Tikrit, Sargat e Hammam Ali. Fu dopo aver lasciato Mosul che cominciarono a vedere i segni della devastazione piombata sugli armeni di quella regione.
Ma prima di parlarne, vorrei dire due parole sul libro di Sisir Sarbadhikari. Innanzitutto è straordinario il fatto stesso che sia stato scritto: è una voce quasi isolata, che rompe un profondo e inquietante silenzio.
Nel secolo e mezzo che ha preceduto la Prima guerra mondiale, centinaia di migliaia di soldati indiani avevano combattuto per l’impero britannico, in patria e all’estero; durante la Prima guerra mondiale, oltre un milione e mezzo di indiani sono stati schierati su diversi fronti. Eppure quelle legioni, per quanto poderose sul campo di battaglia, sono rimaste silenziose come un esercito di fantasmi. Quasi tutto ciò che sappiamo di loro è detto con la voce e nella lingua dei loro signori, gli inglesi. I resoconti scritti da personale militare indiano nel secolo e mezzo che ha preceduto la Prima guerra mondiale si contano sulle dita di una mano. Come memoir integrale della Prima guerra mondiale scritto da un indiano, In marcia verso Baghdad spicca quasi solitario sugli scaffali.
Il silenzio letterario dell’India sul primo conflitto mondiale è ancora più sorprendente se pensiamo quale fecondo soggetto sia stato quel conflitto per i soldati di altri Paesi. In Inghilterra, Francia, Germania e altrove ha prodotto un’enorme quantità di scritti di vario genere. Ma il memoir di Sisir Sarbadhikari resta degno di nota anche all’interno di tale vasto corpus, e non solo perché è l’unico scritto da un indiano, ma perché gran parte dei resoconti sono opera di ufficiali, mentre In marcia verso Baghdad è uno dei pochi scritti da un volontario di basso rango (come il memoir, grandissimo, di Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale).
In marcia verso Baghdad si basa sul diario che Sisir tenne nel periodo trascorso in Medio Oriente, compresi gli anni di prigionia nel campo di Ras al-’Ain. I suoi appunti lo accompagnavano durante le lunghe marce, nascosti negli stivali, e a un certo punto dovette seppellirli, ma a quanto pare continuò a prendere appunti ogni volta che le circostanze lo permettevano. «Dopo la resa a Kut, strappai le pagine del mio diario e le ficcai dentro gli stivali; in seguito, a Baghdad, grazie a quei frammenti compilai un nuovo diario. Si rovinò anch’esso mentre passavo il Tigri a piedi. Ma la scrittura non era del tutto cancellata perché avevo usato una matita copiativa. Asciugai il quaderno e lo usai per i miei appunti durante la marcia da Samarra a Ras al-’Ain, dove fui costretto a seppellire il diario, ma non subì gravi danni. Nell’infermeria di Aleppo l’ho trascritto».
Il diario tornò a Calcutta con Sisir e rimase in un cassetto per quarant’anni. Non è insolito imbattersi in memoir di guerra basati su appunti presi sul campo, ma sono davvero pochi i diari sopravvissuti a un tipo di prigionia come quella subita da Sisir. E le sue annotazioni hanno una straordinaria immediatezza. La descrizione delle battaglie, delle marce e della vita in prigione sono incredibilmente vivide. Date e dettagli servono anche a rendere convincente il racconto. Non c’è nessuna ostentazione delle proprie ferite e sofferenze. Forse il passare del tempo aveva smussato le asperità di ciò che aveva vissuto, perché Sisir riesce a scrivere di situazioni difficilissime con il distacco dell’etnografo. Inoltre il suo libro è straordinariamente scevro da rancori. Raramente parla male di qualcuno, inclusi i “nemici”. Malgrado gli orrori di cui era stato testimone, evidentemente in lui non veniva mai meno la capacità di cogliere l’umanità altrui, neppure di chi l’aveva catturato o lo teneva prigioniero. E anche questa è una notevole qualità, in un libro sulla Prima guerra mondiale: dopotutto era un’epoca in cui gran parte degli scrittori europei stentavano a riconoscere l’umanità di chi non apparteneva alla loro classe, meno che mai quella di chi non era del loro Paese.
Arrivando a Mosul, il 25 agosto 1916, Sisir e i suoi compagni ignoravano la loro destinazione, e furono sorpresi e turbati nell’apprendere che i prigionieri di guerra indiani che avevano combattuto insieme sul campo di battaglia sarebbero stati separati e smistati in base alla loro religione. Hindu e sikh, non essendo né europei né correligionari dei turchi, si aspettavano di essere mandati nei campi di concentramento peggiori. La loro ansia crebbe quando seppero che sarebbero stati mandati in una zona dove erano già stati rinchiusi migliaia di armeni. Fu forse la sensazione di essere stati scelti per condividere un destino che contribuì a creare un profondo legame fra quegli indiani e gli armeni che incontrarono.
Traduzione di Anna Nadotti