venerdì 2 ottobre 2015

Il Sole 2.10.15
Sul nuovo Senato l’ombra di una coazione a ripetere
di Paolo Pombeni


A vedere come è andato e come sta andando il dibattito sulla riforma del Senato c’è da chiedersi se sulla vicenda della seconda camera non pesi l’ombra di una coazione storica a ripetere. Sebbene sia sempre bene andare cauti coi corsi e ricorsi storici, non si può far a meno di notare che già in fase di Assemblea Costituente la vicenda della seconda Camera ebbe un iter lungo e tormentato, dominato da colpi di scena (certo pur nell’asprezza lo stile era migliore, ma erano altri tempi).
Raccontare quel che avvenne allora, sia pure in estrema sintesi, può essere interessante forse, per qualche verso istruttivo. Crediamo pochi sappiano che la proposta da cui inizialmente si prese le mosse prevedeva una seconda camera espressione dei territori formata per un terzo da membri eletti dai consigli regionali (che erano a fine 1946 ancora una vaga ipotesi per il futuro) e per due terzi dai consigli comunali.
Dopo un po’ ci si rese conto che affidarsi ai consigli comunali era tecnicamente complicato e dunque si cominciò a ragionare su cosa sostituirvi. Restava fermo il quoziente del terzo eletto dai consigli regionali, ma si doveva inventare qualcosa per i restanti due terzi. Tornò allora in campo quello che sarebbe stato il mantra di lì in avanti: visto che alla Camera dominava la proporzionale col voto determinato dalle fedeltà ai partiti di massa, facciamo in modo che al senato si voti invece che per “simboli” (ideologie) per “personalità”. Cioè reintroduciamo il collegio uninominale.
La proposta avanzata dal liberale Grassi a fine gennaio 1947 non riuscì a passare, perché era vivo il ricordo di collegi uninominali in cui dominavano le clientele (e talora anche di peggio nel Mezzogiorno), sicché si ripiegò su una proposta dell’on. Nobile che parlava semplicemente dell’elezione di 2/3 dei componenti a suffragio universale diretto da elettori che avessero superato il 25° anno di età.
La faccenda fu lasciata dormire fino al 7 ottobre 1947 quando in Assemblea Costituente un altro liberale della vecchia guardia, l’on. Nitti, riuscì a far passare un ordine del giorno che imponeva l’applicazione del collegio uninominale. A questa proposta si era associato, inaspettatamente, Togliatti che aveva firmato l’odg e infatti fu grazie a questo appoggio che fu approvato di misura (190 voti a favore contro 181 contro). Peraltro fu lasciata la previsione, anche qui con una approvazione di misura, che ciò dovesse svolgersi “su base regionale”. Quando Lussu si lamentò dello scarso amore per l’ente regione anche da parte del presidente della commissione dei 75 Meuccio Ruini, questi lo interruppe platealmente con la frase “E me ne vanto”.
Non ci soffermiamo sui duelli oratori sul carattere prescrittivo o semplicemente indicativo dell’odg Nitti (Mortati fu protagonista nel limitarne la portata). Segnaliamo solo che alla fine nel testo inserito in costituzione rimase l’indicazione sulla “base regionale”, mentre nulla si diceva sul collegio uninominale come strumento di selezione dei senatori. Questo venne lasciato alla determinazione di una legge elettorale su cui si discusse nel gennaio 1948, col testo della Carta già approvato e in vigore.
Fu qui che avvenne la definizione delle norme che di fatto ricondussero il senato nell’ambito del sistema di una democrazia di partiti. Infatti i liberali, che ritenevano di aver ottenuto una grande vittoria con l’approvazione dell’odg Nitti, si scontrarono col fatto di non sapere come gestire una elezione uninominale che in forma secca poteva portare, con la frammentazione delle componenti che già si intravvedeva, all’elezione di un candidato che rappresentasse meno (a volte anche molto meno) della metà dei votanti.
Il rimedio classico sarebbe stato il ballottaggio fra i due più votati al primo turno, ma sembrava macchinoso e poi si temevano le compravendite fra clan e partiti nell’intervallo fra i due turni. Sin dall’inizio della discussione, il 7 e 13 gennaio 1948 il ministero degli interni aveva proposto una soglia minima per poter essere dichiarati eletti (si oscillava fra almeno il 40% e almeno il 50% dei consensi), ma ovviamente questo non andava bene alla componente legata ai sistemi elettorali ottocenteschi. Comunque restava il tema di cosa sarebbe successo se quei quorum non fossero stati raggiunti.
La soluzione prospettata fu una riassegnazione dei voti di fatto su base di lista con un riparto sostanzialmente proporzionale. Questa volta Togliatti, nella discussione del 20 gennaio 1948, aderì a questa prospettiva e Dossetti la perfezionò portando il quorum necessario per l’elezione diretta al 65% dei consensi: una soglia altissima, che di fatto significava poi ritornare quasi ovunque ad una distribuzione dei consensi di tipo proporzionale di lista, sia pure circoscritta entro i confini della regione, perché alla “base regionale” scritta in costituzione non si poteva rinunciare.
Uno degli argomenti portati a favore di una legge elettorale per il senato che non si basasse su un sistema veramente uninominale fu che c’era il rischio di creare una seconda camera alternativa alla prima il che, in un sistema di bicameralismo paritario, avrebbe reso difficile una decente stabilità governativa.
In conclusione va aggiunto che dalla chiusura del dibattito costituente in poi la critica al sistema escogitato per il senato fu continua e praticamente trasversale: anche personaggi ora celebrati come padri della costituzione quali Dossetti o Mortati criticarono continuamente sin dal 1948 questa e per la verità anche altre parti della nostra Carta.
Come si è detto in apertura non è bene giocare con le immagini di una storia che si ripete, ma certo la mancanza di una chiara idea di cosa dovesse essere una “seconda camera” (come disse Mortati ormi nessuno poteva più pensare dovesse raccogliere i meliores et maiores terrae) e il tentativo esasperato da parte di tutti di trovare solo la formula elettorale magica per far prevalere le proprie forze ed emarginare le altrui non ha mai giovato nelle stagioni costituenti.