venerdì 2 ottobre 2015

Corriere 2.10.15
Il retroscena: Pietro Grasso
Faccia a faccia con Boschi L’amarezza del presidente che si è ritrovato da solo
di Monica Guerzoni


ROMA Alle due del pomeriggio, quando Pietro Grasso lascia l’aula di Palazzo Madama, la faccia del presidente è nera come i senatori non l’hanno mai vista. Gli azzurri vi leggono «imbarazzo e amarezza» e i leghisti i segni delle «pressioni indegne» che avrebbe ricevuto. L’ex ministro Mario Mauro arriva a diffondere il sospetto che gli basti «un’alzata di sopracciglio di Renzi» per valutare gli emendamenti. E il presidente, per una volta, reagisce: «Non le permetto di fare allusioni».
Per dirla con un senatore di centrodestra, Grasso esprime «la solitudine del numero primo». Ancora una volta è riuscito a scontentare tutti. Il presidente del Consiglio continua a non fidarsi, tanto da aver fatto balenare l’arma atomica di un (assai improbabile) voto di fiducia. E le minoranze, che confidavano in lui come l’ultimo argine, lo accusano di aver consentito al governo di «radere al suolo Forte Apache».
Ore e ore a incassare insulti dagli oppositori di Renzi, seduto sullo scranno più alto, senza che un esponente della maggioranza spendesse una parola in sua difesa. Solo alle cinque della sera Francesco Russo, ex lettiano diventato renziano di ferro, esterna la «piena solidarietà» dei dem. Una scarsa tempestività che le minoranze interpretano come una precisa strategia del governo: lasciare proseguire il dibattito per arrivare alla pausa delle 14 con l’approvazione dell’articolo 1, così da avere cinque ore di tempo per disinnescare le trappole all’articolo 2.
Per l’ex magistrato è stata un’altra giornata di passione. Per smentire che abbia blindato la riforma per via di recenti contatti con l’inquilino di Palazzo Chigi, o magari per una moral suasion del Colle, i collaboratori del presidente sciorinano numeri e spiegano le scelte più delicate come altrettante concessioni alle minoranze. Ha sbarrato la strada ai «supercanguri», bocciato emendamenti per l’abolizione del Senato, reso subemendabile il «Finocchiaro» sull’elettività e ripescato 29 proposte di modifica che la stessa presidente aveva cassato in Commissione... E se i 19 voti segreti concessi il primo giorno sono finiti sotto la ghigliottina di Palazzo Chigi, Grasso non c’entra. «Che cosa poteva fare — lo giustificano i suoi — se non sapeva nulla dell’emendamento Cociancich?». Per gli uffici di Palazzo Madama il marchingegno che ha scatenato la rabbia delle opposizioni e consentito al governo di vincere facile era un «capolavoro regolamentare», dunque inattaccabile.
Ma ieri pomeriggio, quando tra i giornalisti ha cominciato a girare la voce di un nuovo emendamento del governo per spazzare via i sei voti segreti concessi all’articolo 2, Grasso ferma i giochi. Convoca il ministro Maria Elena Boschi e chiede spiegazioni sul perché, a dispetto di ogni «cortesia istituzionale», il presidente non sia stato informato prima della stampa. La smentita arriva in tempo reale, con il ministro delle Riforme ancora a colloquio con Grasso.