venerdì 2 ottobre 2015

il manifesto 2.10.15
Marchionne, lo schiaffo americano
Fiat Chrysler. Il 65% dei dipendenti statunitensi boccia l’accordo firmato dal manager italiano con il sindacato Uaw
Non colmava il gap tra operai veterani e nuovi assunti: e le tute blu, dopo anni di sacrifici, non accettano più salari dimezzati
Landini (Fiom): «Modello di democrazia, da noi invece non si può votare»
di Antonio Sciotto


«Vote no to Sergio». Uno slogan che ha avuto molta fortuna tra i 36 mila dipendenti americani del gruppo Fca, tanto che ieri il super ceo dei due mondi (Sergio) Marchionne ha ricevuto uno schiaffo che decisamente fino a qualche giorno fa non si sarebbe aspettato. Il 65% dei lavoratori Fiat Chrysler ha infatti rigettato l’accordo siglato dal manager con Dennis Williams, presidente del sindacato Uaw (United auto workers). È la prima volta in 30 anni che accade nella storia di questa organizzazione, e addirittura si minaccia uno sciopero: pare che per battere un record così importante ci volesse proprio il (nostro) Sergio. E dire che Marchionne ha sempre vantato ottimi rapporti con le tute blu Usa, contrapponendole ai più riottosi e a suo parere vetero operai italiani. Ed è un modello per il nostro premier Matteo Renzi.
Ma quando si parla di salario e di uguaglianza, il “vetero” riemerge prepotentemente: il punto più controverso dell’accordo con lo Uaw, infatti, riguarda la paga oraria dei più giovani, quelli entrati dopo la storica fusione tra la Fiat e la Chrysler. E che hanno permesso, accettando stipendi di fatto dimezzati, alla nuova Fca di ripartire. E di arrivare oggi a ottime performance: la divisione Usa dell’azienda ha chiuso il 2014 con un profitto del 4%, e adesso che l’auto italoamericana torna a tirare, le tute blu si sono chieste: e noi?
Loro continuano a essere pagati in modo differente: 28 dollari l’ora i veterans, quelli che in Chrysler ci stavano già, prima della miracolosa rinascita realizzata grazie anche ai finanziamenti concessi da Barack Obama e dall’investimento dei fondi pensione del sindacato; e 15 dollari i giovani neo assunti, quelli con il contratto progression, destinato un giorno ad aumentare, almeno nelle intenzioni e nelle promesse reiterate dal sindacato negli ultimi anni. Una piccola correzione al rialzo c’era già stata nell’ultimo contratto, ma adesso, a fine 2015 e con i profitti ormai consolidati, ci si aspettava la fine del doppio binario, almeno alla conclusione degli anni coperti dal rinnovo. E invece no.
Se alla delusione degli operai per il salario, si aggiunge la paura per la minacciata riduzione dei benefit sanitari, e un piano industriale che vuole delocalizzare a breve la produzione chiave in Messico, la frittata è fatta. E così è passato il no: al 65% come detto, ma in diversi impianti, da Toledo in Ohio, passando dall’Indiana e fino allo stesso cuore della Chrysler, la Jefferson North di Detroit, con ben 4400 dipendenti, la valanga di rifiuti è stata ancora più pesante, arrivando in alcune unità produttive locali fino all’80% e oltre.
Adesso la Uaw dovrà fare il punto, e capire se converrà lasciare aperta questa vertenza, magari con lo sciopero, e tentando di siglare un nuovo contratto, o se invece sia il momento di congelarla, e aprire altri due tavoli piuttosto rognosi, quelli con Ford e Gm, che perlomeno presentano profitti più alti di Fca. Ma le due aziende sono anche due ossi duri, visto che hanno già annunciato di voler abbassare il costo del lavoro per avvicinarlo a quello della Fca: e la Uaw, schiaffeggiata di fresco, non arriverebbe forte alla trattativa.
Bill Parker, operaio 63enne della fabbrica Chrysler di Sterling Heights, nel Michigan, ha spiegato ieri al Wall Street Journal che i lavoratori «sono arrabbiati con Marchionne, perché lui, ora che l’azienda è più ricca, non si è sforzato di restituire loro quello che hanno dato in passato».
E no, i piani alti della compagnia italoamericana non si commuovono: ieri con un comunicato si sono definiti «delusi». La società riteneva «di aver raggiunto, al termine di ore di dialogo e dibattito, un compromesso equo».Fca ricorda quindi «l’esperienza del 2009» (l’anno del rilancio di Chrysler) e «il grande numero di lavoratori che è stato portato nel gruppo da allora». Adesso, nella trattativa, si è cercato «il giusto equilibrio tra successo e competitività». «La natura ciclica dell’industria automobilistica — spiega la nota — richiede che venga riconosciuto il bisogno di premiare i dipendenti durante i periodi di prosperità, ma anche il bisogno di tutelarsi da inevitabili contrazioni del mercato». «Siamo impazienti di continuare il dialogo con il Uaw», conclude Fca.
Dall’Italia parla Maurizio Landini, segretario della Fiom Cgil, sindacato che ha condotto un lungo braccio di ferro con Marchionne. Landini definisce quello Usa «un esempio di democrazia sindacale e industriale da imitare, visto che in Italia non è mai stato possibile permettere a tutti i dipendenti di potere votare sull’accordo che li riguarda senza ricatti».
Per Giorgio Airaudo, deputato di Sel e a lungo nel sindacato torinese negli anni dei conflitti con la Fiat, «lo Uaw ha fatto i conti con un principio semplice e basilare, direi universale, del sindacalismo: l’obiettivo dell’uguaglianza. Se in passato, al momento della ricostruzione della Chrysler, si era accettato un pesante sacrificio, adesso gli operai giustamente si aspettavano un ritorno alla regola “pari mansioni a pari salario”».