il manifesto 1.10-15
Il Vecchio se n’è andato. E ora?
La piazza di Montecitorio non era stracolma come qualcuno si aspettava per il funerale di Ingrao
In un’altra città (o in un altro mondo?), si sarebbero abbassate le serrande dei negozi, avrebbe tuonato il vecchio cannone del Gianicolo, fiumi di persone si sarebbero riversati nelle strade e nelle piazze, nelle vie romane avrebbe dominato un assordante silenzio come a chiedersi: è accaduto e ora?
di Vincenzo Livieri
Forse la statura politica di Ingrao è sproporzionata rispetto alla miseria dei tempi; forse la città di Roma, come sempre cinica e spietata, era indifferente alla morte di uno dei grandi protagonisti della storia del Novecento, forse i compagni presenti erano ormai rassegnati al loro ruolo di spettatori.
Fatto è che la piazza di Montecitorio non era stracolma come qualcuno si aspettava. Dalle casse dei microfoni – allestite in troppa fretta e con superficialità — appena appena si udiva la voce dei relatori; difficile distinguere le parole tanto che, a intervalli, si udiva un grido dalla piazza: «Voce, voce». Anche le bandiere – poche e tutte di Rifondazione, nessuna del Pd (e meno male!) – contribuivano a dare alla cerimonia un tono triste, direi rassegnato.
Prima dell’inizio della cerimonia – unica «nostalgia» della piazza – il canto della folla: Bella ciao appena abbozzato.
Rassegnazione è la parola giusta. Ingrao diceva: «Siamo stati vinti ma non sconfitti». Nella piazza invece c’era il sapore della sconfitta.
Presente alla cerimonia, in un palchetto improvvisato sulla piazza, c’era anche Renzi. Come a dire: liquidiamo qui questa vecchia storia; sono altri tempi quelli di oggi; dobbiamo tornare subito al lavoro.
Ancora una volta il Vecchio sapeva dimostrarsi più giovane di tante persone; lui forse non avrebbe partecipato con rassegnazione; avrebbe detto: «Non ci sto».
Ho incontrato persone che non vedevo da decenni: solo la loro voce mi ha consentito di riconoscerle, tanto il loro volto e aspetto era cambiato. «Che fai?», era la domanda rituale: «Zappetto» rispondeva qualcuno «ho un po’ di terra in Umbria». «E tu?» «Io sto in pensione e non faccio niente, leggo il manifesto tutti i giorni,… aspettando…». Qualcuno dichiarava di aver aperto un sito on-line dove aveva messo l’intera storia repubblicana: «Mi impegna tutti i giorni la ricerca di materiali». Con molti ci si riconosceva appena, ma nessuno ricordava quando e dove ci si era incontrati.
Il paragone con la commemorazione di Pintor a piazza Farnese sarebbe ingeneroso, quello con i funerali di Berlinguer nemmeno a parlarne. Segno dei tempi? Certamente sì, ma anche segno dell’accumularsi di tante sconfitte.
Cesare Pavese diceva: chiodo scaccia chiodo, ma tre chiodi fanno una croce. E di chiodi la sinistra ne ha visti ben conficcati assai più di tre. Le parole si sono consumate tutte, insieme ai corpi dei compagni invecchiati, senza possibilità di sostituzione; molti occhi lucidi ma prosciugati di lacrime.
E intorno alla piazza di Montecitorio turisti, turisti e poi ancora turisti ad ammirare questa città spietata, cinica, indifferente. In un’altra città (o in un altro mondo?), si sarebbero abbassate le serrande dei negozi, avrebbe tuonato il vecchio cannone del Gianicolo, fiumi di persone si sarebbero riversati nelle strade e nelle piazze, nelle vie romane avrebbe dominato un assordante silenzio come a chiedersi: è accaduto e ora?
Il Vecchio se n’è andato, ma il Nuovo non appare ancora, ovvero forse c’è: è Renzi?
Adesso sarà ancora più difficile pronunciare la parola: comunista.