domenica 4 ottobre 2015

Corriere La Lettura 4.10.15
Caccia allo stregone
Linciaggi, monaci esorcisti, paura nella Cambogia ostaggio della magia
Le comunità rurali allontanano e uccidono tutti quelli sospettati di manipolare gli spiriti, nella capitale ci si indebita per farsi liberare dal malocchio. Sullo sfondo, la trasformazione del territorio e il trauma del genocidio dei Khmer rossi
di Ivan Franceschini


Nel gennaio del 2014, a ben guardare tra l’erba in una radura poco discosta dalla strada sterrata che attraversa Trapaing Chuk, una piccola comunità rurale nella provincia di Kompong Speu, si sarebbero potuti notare un dente e alcune schegge d’osso di un candore sconcertante. Erano i resti del cinquantacinquenne Khieu Porn, ammazzato laggiù qualche giorno prima. Nel villaggio non si parlava d’altro. A quanto si diceva, una sera l’uomo stava rientrando da una festa per la fine del raccolto, quando alcune persone sbucate dall’oscurità alle spalle di un vecchio albero di mango lo avevano ripetutamente accoltellato. Mentre gli abitanti del villaggio continuavano a ballare a pochi metri di distanza, i carnefici avevano trascinato il cadavere sanguinante nella radura e lì gli avevano spaccato la testa. Il corpo era stato scoperto la mattina seguente ma della parte superiore del cranio non si era trovata più traccia. Nel villaggio, nessuno aveva dubbi: Khieu era stato giustiziato perché era un thmup , uno stregone. Lorng Youm, una settantenne dalle gengive consumate dal betel, ne era certa: «Diverse persone nel villaggio sono morte all’improvviso dopo aver incontrato Khieu. Un uomo è morto il giorno dopo essersi fatto leggere la mano da lui, un altro poco dopo averlo incontrato». Più d’uno confessava: «Se lo meritava, sono felice che sia morto».
Nel luglio del 2015, decine di contadini di Prey Chonlounh, un villaggio nella provincia di Takeo, ci circondano mentre chiediamo loro spiegazioni su quanto accaduto nell’aprile del 2014, quando Pov Sovann, uno «stregone» accusato di aver causato la morte di nove persone, è stato linciato nei paraggi. Stando al racconto del capo villaggio Kae Yaw, in centinaia lo avevano assediato per ore nella sua casa, lanciandogli pietre e sottoponendolo a ripetuti pestaggi, mentre la polizia rimaneva a guardare. Un’ambulanza giunta sul posto non era potuta intervenire, bloccata da una ressa alimentata dai continui arrivi dai distretti vicini, richiamati attraverso Facebook. La sera il tragico epilogo, con il corpo dell’uomo gettato sul terreno e violato dalla folla inferocita, tra le suppliche della zia e di pochi altri parenti che assistevano impotenti alla scena. Quando «la Lettura» chiede se qualcuno dei presenti pensa che Sovann non meritasse una fine del genere, nessuno risponde. Solo una donna sulla trentina rompe il silenzio: «Se lo è meritato». Al che, tutti si dicono d’accordo.
È allora che i contadini ci chiedono di aiutarli con l’inchiesta della polizia — una richiesta superflua, se si considera che le uniche due persone in custodia saranno rilasciate nel giro di un paio di mesi — e, di fronte alla nostra esitazione, vogliono sapere da che parte stiamo, se con loro o con lo stregone. Intanto, a poche centinaia di metri, la famiglia di Sovann continua a vivere sul luogo del delitto. La vecchia casa è stata demolita da Ka Sak, il suocero sessantenne, stanco di rivivere ogni giorno l’orrore. Con crescente indignazione, racconta le minacce subite: «Mi hanno detto che nulla gli impedisce di prenderne di mira un altro. Non c’è giustizia in questo Paese».
La famiglia di Sovann non è l’unica a trascorrere nel terrore le calde giornate dell’estate tropicale. A qualche centinaio di chilometri di distanza, nella remota provincia del Ratanakiri, popolata da minoranze etniche che mantengono forti credenze animistiche, il quarantaseienne Rocham Kin, di etnia jarai , da mesi vive con la moglie e gli 8 figli in un misero capanno nel cortile della stazione di polizia del distretto di Borkeo, non lontano dal confine con il Vietnam. All’inizio di aprile ha dovuto fuggire dal proprio villaggio, dopo che i compaesani lo avevano accusato di aver ucciso almeno sei persone con una pianta magica. Per due settimane è sopravvissuto da solo nella foresta, un’esperienza che preferirebbe dimenticare: «Non avevo riso, acqua, coperte, zanzariere, cibo o sigarette».
È stato allora che il capo della polizia locale ha deciso di offrirgli un alloggio temporaneo, in attesa di individuare una sistemazione sicura per lui e la famiglia. Sfortunatamente, ciò si è rivelato più difficile del previsto poiché tra i villaggi le notizie viaggiano veloci e nessuno vuole avere uno stregone come vicino di casa. Proprio attraverso il passaparola si scopre che un altro «stregone» è confinato in un capanno nella stazione di polizia del distretto di Oyadav, a una decina di chilometri in direzione della frontiera vietnamita. Sovann Thy, anch’egli jarai , ha sui cinquant’anni e da giovane ha perso entrambe le braccia nell’esplosione di una mina.
Dopo una battuta infelice sugli spiriti in uno dei suoi frequenti momenti di ebbrezza, i compaesani hanno iniziato a sospettare che fosse uno stregone e, a metà giugno, lo hanno costretto a lasciare il villaggio. «Hanno minacciato di uccidere mia sorella e mia nipote», racconta a «la Lettura», ma non la moglie e i sei figli, che sono rimasti nella casa di famiglia e si sono schierati con coloro che lo hanno bandito. Solo alla metà di settembre, dopo mesi di trattative tra la polizia e gli abitanti della comunità, Sovann Thy riceverà il permesso di ritirarsi su un suo terreno non lontano dal villaggio.
In quest’angolo d’Asia d’altri tempi, vicende del genere sono regolarmente riportate dalla stampa locale. Il caso più recente ha avuto luogo alla fine di agosto, quando una guaritrice tradizionale sessantenne è stata trovata sgozzata e sventrata nella sua abitazione nella provincia di Oddar Meanchey. Ben pochi se ne stupiscono. «I thmup esistono da sempre in Cambogia. In passato, si ritiravano nella foresta e vivevano isolati dal resto della comunità. Chi aveva bisogno di lanciare una maledizione, si addentrava nella vegetazione e chiedeva la loro assistenza», ci spiega Somchan Sovandara, un professore della Royal University di Phnom Penh che ha curato un’estesa ricerca sui guaritori tradizionali cambogiani. «Tuttavia le foreste ora stanno scomparendo e i thmup non sanno più dove andare».
Sono dunque le dinamiche perverse dello sviluppo economico, la deforestazione, lo sfruttamento del territorio, che stanno portando due mondi — quello magico della foresta e quello «civilizzato» delle comunità rurali — a incontrarsi e collidere. Se poi i contadini cambogiani, com’è spesso il caso, non hanno accesso ad alcuna assistenza sanitaria, sanno a malapena leggere e scrivere e sopravvivono grazie a un’agricoltura di sussistenza, allora è facile comprendere come le arti magiche finiscano per offrire l’unica spiegazione per i mali di un mondo ostile e sconosciuto. Secondo Chhay Thy, responsabile della sezione del Ratanakiri dell’ong cambogiana Adhoc, ci sono ben poche ragioni di essere ottimisti: «Da anni cerchiamo di educare gli abitanti dei villaggi ma da queste parti il credo animistico è troppo forte e il nostro sforzo non porta a nulla. Inoltre, anche trovare una nuova sistemazione per gli stregoni esiliati sta diventando sempre più difficile, poiché la terra scarseggia ed è legata a vari interessi economici».
Chhay Thy racconta che in Ratanakiri la situazione è così grave che le autorità provinciali starebbero valutando la possibilità di trasferire tutti gli stregoni indesiderati in un’unica comunità appositamente creata, come in realtà avevano già tentato di fare negli anni passati, quando avevano ricollocato una ventina di famiglie sgradite nel villaggio di Saleav, a Borkeo.
La magia è ovunque nella Cambogia di oggi. Di presenze sovrannaturali si intende, suo malgrado, anche François Ponchaud, gesuita francese che frequenta il Paese dal 1965. Storica presenza a Phnom Penh, primo traduttore della Bibbia in lingua khmer, questo novello Matteo Ricci da decenni conduce una personale campagna contro gli spiriti. A suo avviso, il primo passo nell’evangelizzare i cambogiani consiste nel liberarli dalla paura del sovrannaturale: «Per me, la conversione avviene quando non temono più gli spiriti. In genere, il primo anno tutti ne hanno paura e ne parliamo molto, ma poi a poco a poco finiscono per accettare che Gesù è il Signore, Signore sugli spiriti». Si tratta di una battaglia che richiede non solo una profonda conoscenza della cultura locale ma anche una notevole astuzia: «Ad esempio, nel tradurre la lettera di San Paolo agli Efesini, là dove si dice che Gesù siede “al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare”, ho elencato uno per uno i nomi di tutti gli spiriti cambogiani. In questo modo comprendono che Cristo ha vinto». In tutti questi anni in Cambogia, anche Padre Ponchaud si è trovato a fare diverse concessioni alle credenze locali. «Quando ho costruito delle case sull’altra riva del Mekong — rivela a “la Lettura” — una vecchia mi ha detto di aver paura, perché lì c’erano molti spiriti. L’ho rassicurata, ho preso dell’acqua e ho fatto una cerimonia. Da allora, nessuno ha più avuto niente da ridire».
Che spiriti e magia siano ancora percepiti come problemi reali tra i cambogiani è provato anche dal successo di una «clinica» per le maledizioni nella pagoda di Botum Vatey, nel cuore della capitale Phnom Penh. Il fondatore, il monaco buddhista trentaseienne Chhoung Seaksat, si presenta su un’auto di lusso ai fedeli raccolti all’esterno dell’edificio a due piani che ospita il suo ambulatorio. Le persone in attesa rappresentano un’umanità varia, unita solo da un credo irremovibile nei poteri della magia. C’è una negoziante che è lì per un mal di testa ricorrente dovuto a una maledizione lanciatale da concorrenti invidiosi; la proprietaria di una bancarella al mercato, che ha sposato il marito nonostante le loro date di nascita non fossero compatibili e ora deve sottoporsi a un’abluzione mensile; una cuoca del fratello del primo ministro, che lamenta imprecisati malesseri; un’ex poliziotta quarantacinquenne, che ha appena sposato un uomo vent’anni più giovane e vuole della cera magica che la renda più attraente agli occhi del marito. In genere, i visitatori se la cavano con una settimana di abluzioni e circa venti dollari, ma per i casi più gravi è previsto il ricovero al piano superiore, dove i «pazienti» possono trascorrere anche diverse settimane. In quel caso, il pagamento consiste in due tonnellate di cemento dal valore di circa 200 dollari, una somma non indifferente nella Cambogia di oggi.
È così per Srey Lin, una diciannovenne con una grave malformazione agli arti inferiori, cui il monaco ha ordinato di trascorrere tre mesi nella clinica, o di Chea Someoung, un poliziotto cinquantenne che lamenta una semi-paralisi a una gamba. Indipendentemente dai sintomi, a tutti Chhoung parla di maledizioni lanciate da nemici invisibili. A tutti prescrive la stessa cura.
Di recente, il giornalista americano Ryun Patterson ha viaggiato nel Paese alla ricerca di indovini, stregoni e sensitivi, per poi raccogliere i risultati del suo vagare in un progetto multimediale intitolato Vanishing Act . Quest’iniziativa nasce da ragioni del tutto personali: «Il mio interesse è nato una quindicina d’anni fa, quando la ragazza cambogiana che poi sarebbe diventata mia moglie mi ha svelato che suo padre era un mago e aveva otto mogli». Dopo aver chiesto in giro, Patterson ha scoperto che il futuro suocero, Tach Saing Sosak, non era un indovino qualsiasi, bensì una vera e propria celebrità, rinomato per il suo metodo numerologico-fonetico e regolarmente consultato da politici, generali e vip d’ogni genere. Questo ha sollecitato una curiosità che ancora oggi non si è spenta.
Tra le tante storie raccolte nei suoi viaggi, Patterson ama raccontare soprattutto quella di Meas Chanthu, una parente della moglie che, ammalatasi in giovane età, è stata salvata dallo spirito di un sant’uomo morto decenni addietro. In cambio, la donna si è impegnata non solo a fare da medium allo spirito, ma anche a pagargli 500 dollari l’anno, circa la metà del reddito annuale della famiglia. In cambio ogni volta riceve un anno in più di vita. Per Patterson, «questa è l’espressione di fede più autentica che si possa immaginare, una situazione in cui non c’è nulla da guadagnare e molto da perdere».
Sarà per il trauma del genocidio perpetrato dai Khmer rossi di Pol Pot tra il 1975 e il 1979 (un milione e 700 mila morti), sarà per gli anni di guerra civile, ma la frontiera tra vita e morte sembra significare ben poco nella Cambogia di oggi. Succede dunque spesso che, nell’affrontare un problema di magia, la toppa si riveli peggiore del buco. Lo sanno bene gli abitanti di Trapaing Chuk, che per mesi hanno cercato invano di neutralizzare lo spettro del defunto stregone. Questi ogni notte vagava per i campi alla ricerca della propria testa e persino la vecchia Lorng, che aveva pagato profumatamente dei monaci perché venissero a spargere acqua santa intorno alla sua abitazione, ogni sera si sprangava in casa con la famiglia.
Anche a Prey Chonlounh per mesi dopo l’uccisione di Sovann nessuno osava aggirarsi per le strade la sera. Solamente tra le piantagioni di caucciù del Ratanakiri, Rocham Kin, sempre più solo, continua ad aggrapparsi alla vita, rifiutandosi ostinatamente di ritirarsi nel mondo delle ombre.