domenica 4 ottobre 2015

Corriere La Lettura 4.10.15
I ritratti sono l’anima dell’Occidente (perciò non c’è dialogo con l’islam)
Il regista Sokurov : visioni inconciliabili, difendiamoci
di Gianluigi Colin


Il personaggio
Il regista russo Aleksandr Nikolaevic Sokurov è nato a Podorvicha (Siberia) nel 1951 e si è diplomato in Cinematografia a Mosca 1979. Risale ad allora il suo primo lungometraggio, La voce solitaria dell’uomo . In una ventina d’anni ha girato una serie di film accomunati dal tema e dal tono dell’elegia: Elegia moscovita (1987), Elegia sovietica (1989) ed Elegia dalla Russia (1993), cui seguiranno Elegia di un viaggio (2002) ed Elegia di una vita (2006, presentato a Locarno). La sua filmografia include, tra gli altri, Moloch su Hitler (1999), Toro su Lenin (2001), Il Sole su Hirohito (2005); Madre e figlio (1997, premiato al festival di Mosca), Padre e figlio (2003, premio Fipresci a Cannes), il tecnicamente virtuosistico Arca russa (2002); Aleksandra (2007) e Faust, Leone d’oro a Venezia nel 2011. Dell’anno scorso è Francofonia girato al Louvre e presentato a Venezia

Aleksandr Sokurov sta girando in questi giorni un nuovo film. È a Nalchik, nel Caucaso del nord. Ma il film non è suo: sta aiutando 15 suoi studenti a diplomarsi in regia, producendo, a spese della sua fondazione, un lungometraggio tratto da un romanzo della scrittrice russa Lyudmila Ulitskaya. Un progetto al quale tiene molto, quasi fosse l’ideale continuazione di una missione che si è imposto da sempre, l’impegno per un’etica del vivere: attraverso il cinema, la parola, l’arte, i comportamenti quotidiani. Sokurov è così: un russo della Russia siberiana, 64 anni, gentile e sospettoso, timido ma fermissimo nelle sue convinzioni, geniale e sensibile, aperto nei linguaggi e insieme intransigente, rigoroso, pragmatico, severo. Anche fisicamente, come scolpito nella roccia senza smussature agli angoli. Ma i suoi occhi, che non si fermano mai e fissano ogni dettaglio, concedono spiragli di dolcezza.
Per molti è considerato un genio del cinema: per innovazione dei linguaggi, innanzitutto, e poi per la profondità e la forma poetica dei suoi racconti visivi. Basti ricordare il film Madre e figlio , del 1997, capolavoro silenzioso e dilatato, girato con specchi deformanti su ispirazione dei dipinti di Caspar David Friedrich, oppure il geniale e complesso L’arca russa , realizzato interamente al museo Ermitage di San Pietroburgo. Un unico spettacolare, incredibile piano sequenza, ovvero, un intero film senza montaggio: una videocamera speciale, una scena con 32 stanze, 4.500 persone coinvolte, 867 attori, 3 orchestre, 22 assistenti alla regia. Il risultato? Un viaggio surreale e onirico nella storia della Russia, da Pietro il Grande ai giorni d’oggi e un film di 99 minuti che rimane nella storia del cinema. Una sfida. Una geniale follia.
Il suo cinema è un costante rimando all’arte, alla poesia, alle debolezze umane, ma soprattutto alla storia: per Sokurov un’ossessione, una vera necessità, anche se «la storia non insegna niente. Non conosce né ragione, né pietà», dice. Non a caso dà il via alla tetralogia sul potere che racconta Hitler ( Moloch , 1999), Lenin ( Toro , 2000), l’imperatore Hirohito ( Il sole , 2005) e infine il potere nella sua assoluta valenza simbolica: Faust , 2011. Film misterioso e sofisticato con cui conquista il Leone di Venezia.
Quest’anno però, Venezia non è stata altrettanto generosa. Sokurov ha voluto parlare con «la Lettura» subito dopo la proiezione del suo bellissimo Francofonia , struggente inno civile in difesa dell’arte. Un film che è insieme documento, saggio, sogno, cronaca, ma soprattutto messaggio universale sul valore della cultura e dell’arte come identità, simulacro di infinite storie, patrimonio di civiltà da difendere e tutelare. Sempre e a ogni costo. Così, attraverso la rievocazione storica usata come metafora (si racconta del Louvre durante l’occupazione nazista nel 1940), arriva al presente passando per la poesia del linguaggio onirico (c’è anche un bombardiere che vola nelle sale del museo): Sokurov, guardando la storia di sbieco, tra verità e finzione, celebra la mitologia dell’arte ma enuncia anche una visione politica che inevitabilmente evoca, in contrasto, le immagini di devastazione dei siti archeologici da parte dell’Isis: «Dobbiamo proteggere la nostra cultura dalla furia iconoclasta di chi la distrugge. Non dimentichiamo Palmira: nemmeno i nazisti avrebbero osato tanto», sottolinea il regista. Il film, girato prevalentemente nelle sale del Louvre, racconta del rapporto tra il direttore del museo, Jacques Jaujard e l’ufficiale nazista Franziskus Wolff-Metternich che insieme, in una tacita complicità, salveranno il patrimonio artistico del museo.
I giorni di Venezia sono lontani. Durante la cena in suo onore, in cui ha festeggiato il premio Fondazione Mimmo Rotella assegnatogli, ha iniziato una lunga, dura e per alcuni aspetti rivelatrice chiacchierata che continua via telefono da Nalchik.
Oggi Sokurov (autore anche di un volume, Nel centro dell’oceano , pubblicato in Italia da Bompiani) è amareggiato, deluso, sconfortato. E non riesce a nascondere la sua rabbia. Non solo per il mancato riconoscimento del suo film («Sarei stato sorpreso del contrario. La lobby latino-americana ha assolto il proprio compito») ma per tutto quello che c’è stato intorno: la censura in Russia («Sono scomodo perché non rispetto la retorica del potere»); la deludente e inaspettata conclusione di rapporto con il Louvre («Cambiato il direttore del museo ci hanno cacciato via come fossimo appestati»); il suo prendere atto del silenzio di alcune testate europee su temi internazionali («Non avrei mai pensato una tale forma di autocensura nell’Europa democratica. Non c’è il coraggio di sottolineare l’incapacità politica e culturale dei governi di fronteggiare l’invasione musulmana in Europa»); e infine, le polemiche sul tema del rapporto tra islam e arte.
Il film appare infatti drammaticamente profetico di ciò che oggi accade con la distruzione dei siti archeologici in Siria e in Libia. Sokurov non è persona da cambiare idea: «La nostra estetica e quella musulmana non sono in alcun modo conciliabili. L’arte del ritratto, punto di riferimento della nostra pittura e scultura, è del tutto incomprensibile per loro. Dobbiamo nutrire un grande rispetto ma anche mantenere una giusta distanza».
In un passaggio del film Sokurov, con la sua voce ferma, mentre scorrono i ritratti dipinti da Leonardo, Rembrandt, Ingres, Delacroix, David, afferma: «Che cosa sarei io senza i volti di chi mi ha preceduto?». Già, che cosa saremmo senza quei volti? «Un popolo o una classe che siano stati tagliati fuori dal proprio passato sono molto meno liberi di scegliere e di agire», ricorda John Berger, nel suo Questioni di sguardi . Esattamente per questa ragione Aleksandr Sokurov sa bene che l’arte del passato è oggi una questione politica.
Il regista parla lentamente, concentrandosi sulle parole: «Se i valori cristiani smettessero di esistere, che cosa potrebbe accadere? Se si abolisse il Natale o se si accettasse il divieto islamico di ritrarre le divinità?». André Malraux sosteneva che «l’arte non è una sottomissione, ma una conquista». Le parole di Sokurov evocano le pagine dell’ultimo libro visionario, quello di Michel Houellebecq, Sottomissione , appunto. Il romanzo di Houellebecq, Sokurov non l’ha ancora letto: «Non è stato ancora tradotto in russo. Con gli amici e con Aliona Shumakova, la mia traduttrice, ne abbiamo parlato a lungo. Forse è proprio così, ci arrenderemo, e senza battaglie. Per evitarlo dobbiamo fare cose concrete. Per difenderci dobbiamo trovare una saggezza forte o una forza saggia. La bontà, cui ci appelliamo tutti, dev’essere saggia. Un buon padre non permette tutto ai propri figli. Il padre rappresenta la ragione e la forza. Comportiamoci come padri saggi».
Sokurov è molto attento ai temi sollevati dal suo film. L’arte diventa visione del mondo, espressione di unione ma anche di lacerazioni. Anche la storia dietro le quinte del film è storia di contrasti: «L’allora ministro della cultura Frédéric Mitterrand mi ha chiesto un incontro chiedendomi che cosa volessi fare al Louvre. Di fronte alle mie idee non mi sembravano, in verità, molto entusiasti. Ma poi mi dissero di sì e abbiamo cominciato a studiare, fatto le ricerche storiche, scritto la sceneggiatura, il solito lavoro di routine, insomma. Tutto sembrava perfetto. Ma a un certo momento ci sono le elezioni in Francia. E il nuovo presidente della Repubblica cambia il ministro della Cultura e il direttore del Louvre, le due figure che ci sostenevano. Così, da quel momento, il nuovo direttore non ha mai voluto incontrare il nostro produttore. E il direttore diceva: che ci fa un regista russo al Louvre? Noi abbiamo già un dipartimento di cinema. Ma i contratti erano firmati e visto che eravamo già dentro ci hanno lasciato fare. Ma il messaggio che ci è arrivato è stato: appena avete finito, sparite». Come? «Sì, proprio così, sparite!».
E allora? «È la prima volta che sono stato trattato così. Sono rimasto soprattutto offeso per come hanno trattato tutti quelli che hanno lavorato con me al film. Un’immensa delusione. Per questa ragione quando ci sarà la prima del film al Louvre, non ci andrò».
Sokurov appare stremato dalle polemiche. Ma torna sul concetto delle contaminazioni: «I musulmani accusano l’Europa di deviare i giovani. In parte è vero, attraverso la televisione il mondo occidentale si intromette nel loro spazio culturale, con modelli di comportamento, costumi, azioni e stili di vita che possono metterlo in discussione. Faccio una proposta provocatoria: le nostre televisioni dovrebbero avere il coraggio di spegnere il segnale e impedire le trasmissioni in quel mondo. E viceversa». Per un artista che lavora con l’immagine questa proposta appare una surreale forma di iconoclastia al tempo dei media globali. Poi, fissando dritto negli occhi: «Un messaggio agli artisti? Cari amici, osservate bene il volto umano, guadate i ritratti, guardateli con attenzione, capite come i vostri antenati hanno creato il loro nome e la loro arte. Oggi molti artisti sono guidati dalla superbia, fanno design, non arte. Il design, nasce inizialmente come creazione di un comfort per vivere meglio. L’arte invece è ciò che non ti lascia dormire, ti sveglia, ti scuote e muove la tua coscienza. Arte è soprattutto una cosa: inquietudine».