lunedì 5 ottobre 2015

Corriere 5.10.15
La Città Vecchia chiusa agli arabi e nei Territori c’è voglia di «Intifada»
La destra preme su Netanyahu perché agisca, la sinistra israeliana è stanca di Oslo
I ministri oltranzisti nella coalizione - come Naftali Bennett- chiedono un intervento ancora più duro.
Negli scontri di ieri - in tutti i territori e nella parte araba di Gerusalemme - sarebbero rimasti feriti quasi 100 palestinesi
Tra i palestinesi cresce la voglia di armi, ma la violenza resta poco organizzata. Per ora
di Davide Frattini


L’ invito del presidente Reuven Rivlin a non lasciare vuote le vie nella Città Vecchia di Gerusalemme sbatte contro lo sbarramento della paura e quello imposto dalla polizia. Che per due giorni non permette ai palestinesi di varcare i portali delle mura antiche, possono passare solo gli arabi che vivono o lavorano tra le pietre più contese. Con loro i turisti, gli ebrei israeliani che vogliono pregare al Muro del pianto, le tante guardie dispiegate dopo l’attacco di sabato sera.
In questi giorni Israele celebra la festa di Sukkot, le tende bianche coperte dalle foglie di palma issate come bandiere davanti alle case o sui balconi. Pochi ricordano l’altra tenda, quella che il premier israeliano Benjamin Netanyahu suggeriva di piantare a metà strada tra Gerusalemme e Ramallah dove sedersi con il presidente palestinese Abu Mazen. Era il giugno del 2013, adesso i due leader neppure si parlano, i negoziati voluti dagli americani sono «congelati» — l’espressione è dei diplomatici, le trattative sembrano piuttosto ibernate — in mezzo ci sono state una guerra (quella dell’estate scorsa con Hamas a Gaza) e la violenza che non si placa in Cisgiordania.
La parola Intifada torna sulle prime pagine dei giornali, viene sussurrata con preoccupazione da Netanyahu e i suoi consiglieri, proclamata come avvertimento da quelli di Abu Mazen: «I segnali sono gli stessi del settembre di quindici anni fa, l’esperienza dimostra che gli israeliani non possono bloccare la libertà palestinese con misure di forza» commenta Saeb Erekat, considerato un possibile successore del raìs. Che a ottant’anni non nasconde la stanchezza: è improbabile che cerchi di ottenere un secondo mandato nelle elezioni per ora sempre rinviate.
Sarebbe la terza rivolta palestinese, l’ultima è scemata ed è stata disinnescata dalle operazioni militari nel 2005, dopo tremila morti arabi e un migliaio israeliani. A ognuna gli analisti e i politici israeliani hanno affibbiato una definizione: la prima è stata chiamata Intifada delle pietre mentre per la prossima, quella da scongiurare, manca ancora una denominazione perché la violenza è diffusa ma non sembra fino ad adesso organizzata. «È un’Intifada individuale — spiega Avi Issacharoff, esperto di cose palestinesi per il sito Times of Israel —. La maggioranza della popolazione non prende parte agli attacchi».
Un sondaggio del Palestinian Center for Policy Survey and Research rileva che il 57 per cento tra gli abitanti arabi dei territori e di Gerusalemme Est appoggia il ritorno alla «ribellione armata», è l’8 per cento in più rispetto a tre mesi fa. Editorialisti come David Rosenberg associano la frustrazione palestinese all’economia sempre più rallentata (la crescita è a zero) della Cisgiordania: «Le condizioni di vita sono stagnanti — scrive sul quotidiano Haaretz — e l’Autorità palestinese tira avanti solo grazie alla generosità internazionale: non vuol sentir parlare di crisi perché vorrebbe dire impegnarsi in riforme interne».
Altri analisti sono convinti che lo scontro stia diventando religioso, al centro la questione della Spianata a Gerusalemme: il terzo luogo più sacro al mondo per i musulmani sunniti è venerato anche dagli ebrei, lì sorgeva il Secondo tempio distrutto dai romani nel 70 dopo Cristo. Malgrado le smentite, gli arabi temono che il governo israeliano voglia cambiare le regole di accesso definite da quasi cinquant’anni e permettere agli ultraortodossi di pregare tra le moschee.
Abu Mazen alza il volume dei proclami e delle minacce, non sembra interessato però a fomentare una guerra che lo lascerebbe traballante al potere: per ora le sue forze di sicurezza continuano a cooperare e coordinarsi con l’esercito israeliano, provano a evitare che i disordini si diffondano. Eppure — fa notare Amos Harel sempre su Haaretz — «gli sviluppi di questi ultimi mesi mostrano che i freni tirati dall’Autorità e dal governo israeliano potrebbero non bastare a fermare la corsa verso il caos».
Gli alleati nella coalizione accusano Netanyahu di essere troppo morbido, lui che sette mesi fa ha vinto le elezioni con l’appellativo di Mr. Sicurezza. Così la destra oltranzista chiede di ordinare raid militari: «L’esercito ha le mani legate per colpa del premier» attacca Naftali Bennett, che guida il partito dei coloni ed è ministro dell’Educazione. «La sinistra sembra invece offuscata dai dubbi della mezza età», ironizza su Twitter Asaf Ronel, che ha seguito per Haaretz il dibattito tra Zeev Sternhell, tra i più importanti ricercatori sulle origini del fascismo, e Shlomo Avineri, docente di Scienze politiche ed ex diplomatico. Tutt’e due sostenitori da sempre della necessità di un accordo con i palestinesi, devono confrontarsi con quello che ormai anche i pacifisti considerano il fallimento dell’intesa stabilita a Oslo e che garantì il Nobel per la pace a Yitzhak Rabin, Shimon Peres, Yasser Arafat.
Sono passati vent’anni, i due pensatori provano a immaginare le soluzioni che possano chiudere questo conflitto senza fine. Con l’avvertimento di Avineri: «I palestinesi continuano a considerare Israele un fenomeno coloniale destinato a scomparire, così non c’è una vera base per il dialogo».