Corriere 25.10.15
Un anno dopo Storia di Reyhaneh giustiziata in Iran «Lascio le mie lettere al vento della libertà»
di Reyhaneh Jabbari
Tre uomini mostruosi mi aspettavano in una piccola stanza. Mi hanno ammanettata allo schienale della seggiola e obbligata a sedere per terra. Ho appoggiato la testa al sedile, non riuscivo a distinguere le voci, uno dopo l’altro urlavano: «Pensi di essere furba? Quelli più furbi di te sono diventati “topi”. Ora tu, pulcino, chi vuoi imitare?».
Nella schiena ho sentito un colpo. Ho sentito la mia pelle gonfiarsi e ad un altro colpo si è strappata. Il fuoco nel mio corpo è divampato. Gridavo, ma dentro, sommessamente. Le loro urla erano assordanti: «Dio ti maledice».
E ancora mi percuotevano. Io, a terra, umiliata, affogata nella mia stessa saliva, nel mio muco e nelle lacrime.
Io, Reyhaneh, ora ho ventisei anni e porto ancora sulla mia schiena le cicatrici, ora sono più pallide ma si vedono negli stessi punti di quando al rientro dagli interrogatori le donne drogate e prostitute pregavano per alleviare il mio dolore.
In queste donne, per la prima volta nella mia vita ho visto tracce d’affetto, ed erano le stesse donne che, se le avessi viste per strada, le avrei guardate con disprezzo. Questi giorni, scuri e amari sono finiti con la mia confessione. Ho scritto tutto quello che i tre uomini mostruosi volevano.
Io, Reyhaneh, ho ventisei anni e, nonostante le tracce di dolore lasciate sul mio corpo e nella mia anima, non ho nei confronti dei miei torturatori alcun desiderio di vendetta. Non ho sentimenti di vendetta neppure per quell’uomo grasso che con gli scarponi mi ha schiacciato le dita dei piedi, mi ha rotto le unghie e queste ancora crescono storte e circondate da una carne più scura. In questo mondo non mi lamento, ma nell’altro li denuncio davanti a Dio.
Io, Reyhaneh, ho ventisei anni e porto un carico di dolore e sofferenza: per liberarmi di questo peso scrivo. Vorrei finire al più presto possibile, perché ho paura di non aver tempo sufficiente per scrivere. Darò queste lettere a una signora gentile che in questi giorni sarà liberata. Dicevo sempre a mia madre che volevo lasciarle in eredità tanti fogli.
In questi anni le ho mandato tante lettere, tranne quelle scoperte e sequestrate.
La mia amica ha l’incarico di dare queste lettere al vento della libertà, perché possano volare dappertutto.
Un giorno ho deciso di organizzare un compleanno per una prigioniera il cui nome non è importante, era una qualsiasi, potevo essere io. Ho fatto girare la voce: alcune preparavano cartoline di auguri, altre pensierini, alcune cercavano pentole da usare come strumenti musicali.
Con tante piccole torte confezionate e farcite, pezzi di frutta sciroppata e noci e — colpo finale — uno strato di mascarpone, abbiamo preparato quella che sembrava una torta di pasticceria. Altre volte abbiamo ripetuto la festa, ma poi tornava la tristezza.
In questo periodo hanno giustiziato una donna di nome Zahra. Aveva ucciso il marito e aveva tre figlie che avrebbero potuto perdonarla evitandole l’impiccagione ma, per le calunnie sulla madre dette loro dal giudice, non l’hanno salvata. Zahra stava lavorando a maglia per una delle sue ragazze quando è stata impiccata e la maglia è rimasta incompiuta.