sabato 24 ottobre 2015

Corriere 24.10.15
I focolai del populismo dal villaggio all’Europa
Il caso di Erpatak, il piccolo centro ungherese dove il sindaco ha diviso i cittadini fra «costruttori» xenofobi e «distruttori» favorevoli all’integrazione. Un virus che contagia il continente da Sud a Nord, dalla Grecia all’Olanda e alla Francia, il Paese di Marine Le Pen che nei sondaggi arriva al 30 per cento
di Massimo Nava


Erpatak è una cittadina ungherese in cui il sindaco ha diviso gli abitanti in «costruttori e distruttori». I primi sono bravi cittadini che amano l’ordine, la giustizia, la patria. Gli altri sono i disoccupati, gli immigrati, gli zingari, gli emissari di una «congiura internazionale ebraica» interessata alla distruzione della Nazione e dei valori nazionali.
Fra questi valori c’è la memoria. Il sindaco celebra i volontari che combatterono con le SS contro i sovietici (altro nemico, sono naturalmente i comunisti), organizza cerimonie in cui si cantano le strofe in disuso dell’inno tedesco e si fanno saluti con il braccio teso.
Questo modello di razzismo, xenofobia e nazionalismo, con proclami antisemiti, è stato attuato in Ungheria, uno Stato che fa parte dell’Europa, lo stesso che oggi alza muri e fili spinati per respingere profughi e migranti che comunque non resterebbero sul suo territorio.
Il sindaco organizza processi pubblici per togliere sussidi ai disoccupati che non spalano «bene» la neve o che «rubano» la legna nei boschi. Quanto ai rom, se si attaccano alla linea elettrica sono visitati a casa dalla polizia e considerati criminali. E se non educano bene i propri figli, questi sono sottratti e dati in adozione per farne buoni ungheresi. La scuola è maestra di vita ungherese, i bambini cantano in girotondo i principi della Nazione.
Tutto questo lo abbiamo visto nel film di Benny Brunner, al Festival dei diritti umani di Lugano. È seguito un dibattito sui nuovi populismi. L’Europa, attenta a bacchettare una finanziaria o la vendita di vongole che misurano due millimetri in più, è raramente in prima linea per difendere l’identità di comunità democratica, senza distinzioni di razza e religione.
Il caso Erpatak, con il suo sindaco, Zoltan Orosz, personaggio ridicolo nel suo abbigliamento da «schutzen» tirolese (senza offesa per il Tirolo), virilizzato da stivaloni di cuoio neri e cinturone borchiato, è un caso estremo.
Al confronto, i populisti di casa nostra sembrano usciti da una scuola di tolleranza e buon senso. Però gli slogan razzisti continuiamo a sentirli. Il virus si diffonde, dentro e fuori l’Ungheria. I partiti xenofobi, nazionalisti, populisti si stanno affermando ovunque, dall’Olanda ricca e multietnica alla povera Grecia. In Francia, Marine Le Pen veleggia al trenta per cento nei sondaggi: un elettorato che forse sarà recuperato da Sarkozy, il quale non disdegna di «recuperarne» anche bisogni e posizioni.
È un atteggiamento che diventa trasversale ai partiti, sinistra compresa, dentro un’opinione pubblica che chiede ordine, sicurezza, protezione sociale. I buoni sentimenti e la saldezza di principi vacillano, se il virus si propaga laddove il terreno è più fertile e le cause più comprensibili: periferie, ceti popolari, quartieri difficili, fra immigrati di prima e seconda generazione, in competizione con gli ultimi arrivati.
La discriminante non è più fra partiti di destra e di sinistra, ma fra chi vuole stare in questa Europa per migliorarla, e farne una casa comune di progresso sociale e crescita economica, e chi ne vuole uscire considerandola l’origine e la causa dei problemi. Fra «uscire» nel senso di andare via dall’Europa e «buttare fuori» il confine è sottile, ambiguo, proprio come avviene nell’Ungheria di oggi.
Il Paese che per primo è uscito dal comunismo, aprendo la «cortina di ferro», che è entrato in Europa prendendone più vantaggi che svantaggi, adesso propaga un discorso antieuropeo, chiude frontiere e butta fuori gli altri. L’ideologia dominante è nazionalista e razzista. Ma Orban, il premier, fa parte dei Popolari europei.
Buttare fuori, significa cercare capri espiatori. La storia tragica dell’Europa potrebbe ripetersi. È un rischio concreto se si distruggono le basi di un modello sociale, se il welfare non garantisce nemmeno più i ceti medi, se la guerra è fra poveri, se il nemico diventa l’altro. Ieri gli ebrei. Domani a chi toccherà?