Corriere 1.10.15
Il nuovo libro di Paolo Mieli
Al bivio tra Aiace e Carlo V
Attenzione a vinti e denigrati, critica del complottismo Ecco le chiavi per rileggere
i più complessi eventi storici
Trasferire in un’aula di tribunale casi sui quali neanche gli studiosi di professione sono riusciti a fare luce in modo definitivo produce risultati discutibili che vengono ripetuti con sciatto automatismo
di Aldo Cazzullo
«Un Paese senza memoria» viene spesso definita l’Italia. In realtà, il nostro si rivela un Paese in cui la memoria viene sottilmente usata, e non in quel modo onesto che, avverte Paolo Mieli nell’incipit del suo nuovo libro, è «il più valido antidoto all’imbarbarimento». Non soltanto «l’uso disinvolto delle demonizzazioni e delle riabilitazioni»; non soltanto la lunga teoria delle dissimulazioni, l’arte di cancellare le tracce in cui si sono rivelati maestri ad esempio gli intellettuali passati disinvoltamente dal sostegno del regime all’antifascismo, non quello coraggioso della Resistenza, ma quello opportunista della retorica. Il più insidioso tra gli usi impropri della memoria è la «reinvenzione della storia», che è cosa ben diversa dalla rilettura, dalla reinterpretazione, dalla stessa revisione (altra parola da maneggiare con cura).
«L’arma principale che si è infiltrata nel dibattito storiografico (allargato alle discussioni giornalistiche) è, da tempo, il complottismo — avverte Mieli —. Cioè la pretesa di modificare i termini della discussione con l’inserimento di tesi suggestive ancorché indimostrabili». È un’attitudine che la rete ha moltiplicato, ma non certo inventato. E non è l’unica arma della memoria usata sempre più sovente: un’altra è quella del «ricordo a tesi», in cui la «sensazione» conta più della prova; un’altra ancora è quella diffusa nell’ultimo ventennio, che l’autore definisce «l’arma suprema»: «Trasferire in un’aula di tribunale casi sui quali neanche gli storici di professione sono riusciti a fare luce in modo definitivo. È una “storiografia dei magistrati” (ma anche dei pentiti e dei giornalisti) che ha abbondantemente preso piede e che produce “risultati” destinati a trasferirsi con sciatto automatismo nei libri di storia veri e propri». Talvolta, aggiunge Mieli, «si ha la pretesa di scriversi da cima a fondo questi libri. È il caso dell’atto di accusa dei magistrati di Palermo contro Giulio Andreotti, che nel 1995 è stato pubblicato in un volume dall’ambizioso titolo La vera storia d’Italia».
Va detto che L’arma della memoria. Contro la reinvenzione del passato (Rizzoli) non è un libro di teorie. È un libro di idee, che non vengono formulate in modo astratto, ma calate in una serie di racconti (in parte già apprezzati dai lettori del «Corriere») che vanno dalla contesa tra Aiace e Ulisse per le armi di Achille — quasi un apologo del principio per cui la maggioranza non ha sempre ragione — sino agli argomenti di stretta attualità. Con una premessa, non esplicitata, ma costante: se i grandi storici del Novecento italiano stanno nell’alveo del pensiero liberale, l’egemonia culturale ed editoriale di sinistra o comunque genericamente progressista ha male appreso o ignorato quella lezione, e ha creato o contribuito a creare una serie di luoghi comuni difficili da sfatare.
Il Risorgimento, il fascismo, la guerra civile, il dopoguerra con lo scontro tra democristiani e comunisti restano i terreni cruciali. Qui Mieli ci ricorda che si possono riconoscere i meriti delle élites risorgimentali senza dimenticare però — come a lungo si è fatto — le vittime di Casalduni e Pontelandolfo; che i fascisti non furono hyksos spuntati dal nulla, ma il frutto degli errori contrapposti dell’estremismo rosso e dell’ignavia liberale; che Mussolini venne preso sul serio sia in America sia in Inghilterra, per quanto il carteggio con Churchill rappresenti un falso storico; che gli inglesi avevano qualche ragione di diffidare dei partigiani; che Giovanni Gentile fu ucciso forse più per privarlo del ruolo che avrebbe potuto avere nel futuro che per punirlo di quello che aveva esercitato in passato (anche se non tutti troveranno convincente la definizione di «delitto» per un’azione in piena guerra civile — pagata da Fanciullacci con la tortura e la morte — contro il filosofo del regime che aveva aderito a Salò e alla sua politica razziale, pur aiutando i propri amici intellettuali); che la storia della Dc non può essere ridotta alle contaminazioni con la mafia e al saccheggio dello Stato.
Il solido impianto culturale del libro va di pari passo con la piacevolezza narrativa: il lettore è così condotto sotto le mura di Bisanzio, colpevolmente abbandonata dalla cristianità (con l’eccezione dei coraggiosi difensori genovesi); nel mezzo del formidabile scontro dottrinale tra giansenisti e gesuiti; alle pendici dell’Aspromonte accanto a Garibaldi ferito e al colonnello che ha aperto il fuoco inginocchiato a chiedergli perdono; lungo i frenetici spostamenti di Carlo V che cambiò letto 3.200 volte; nella stanza di Dresda dove Metternich prevede a Napoleone una fine amara; e sulla tomba dei genitori di Mussolini, dove Vittorio Emanuele III si recò per alleggerire la tensione con il Duce, pur non avendo partecipato nel 1928 ai funerali di Giolitti (se è per questo, suo nonno Vittorio Emanuele II non era andato ai funerali di Cavour).
Molto felici le pagine dedicate ai libertini del pensiero: Spinoza e don Giovanni. E sempre il lettore ha l’impressione, e spesso la consapevolezza, che le cose non siano andate come ha sempre creduto, che la realtà sia molto più complessa e varia di come viene tramandata: una rivelazione che non arriva mai con pedanteria o sensazionalismo, ma con un sorriso disincantato che è il modo dell’autore di provare pietas per i vinti, per gli incompresi, per i denigrati, per i dimenticati. Un sorriso che a volte si fa invece aperto e contagioso, come quando Mieli cita la canzone dei «patrioti» reclutati a Napoli da don Liborio Romano in sostegno del nuovo ordine risorgimentale: «Nuje non simm cravunari (carbonari)/ nuje non simmo realisti/ ma facimmo i camorristi/ fammo n’c… a chilli e a chisti». Si può a volte dissentire dall’autore, non disconoscerne il coraggio intellettuale. Ed è difficile, quasi al termine del libro, non concordare con la citazione dello storico Raoul Pupo, che Paolo Mieli colloca non casualmente come chiusa del capitolo su Trieste e le foibe: è una fortuna che si senta oggi «parlare un po’ meno di memorie condivise — strani oggetti, posto che la memoria è il luogo per eccellenza della soggettività non interscambiabile a piacimento — e un po’ più di rispetto delle memorie diverse, nonché in ambito cattolico di “purificazione della memoria”, il che sottintende l’esistenza nei ricordi di zone oscure che non vanno rimosse o celate, ma affrontate a viso aperto».