lunedì 19 ottobre 2015

Corriere 19.10.15
Perché il canone Rai è una tassa ingiusta
di Pierluigi Battista


Va bene, pagheremo quell’odioso balzello denominato «canone Rai» con la bolletta dell’elettricità. Ciò non toglie che saremo costretti a pagare una tassa iniqua e ingiustificata. Perché è un residuo di un’epoca finita, quella in cui non esisteva il telecomando, lo smartphone, il tablet, e non esisteva nemmeno il computer. Di un’epoca in cui possedere un apparecchio televisivo era un privilegio e la gente andava a vedere «Lascia o raddoppia» con Mike Bongiorno al bar. Un’epoca in cui esisteva il monopolio della tv e della radio di Stato, con un solo telegiornale e un solo radiogiornale, più o meno nel Medioevo. Perché l’obbligo fiscale di un canone va contro il principio della libertà di scelta: pago il biglietto del cinema o di un concerto, se lo scelgo io; pago il prezzo di un giornale se lo scelgo io; pago una tv tematica non di Stato se la scelgo io; sono invece costretto a pagare la tassa per la Rai anche se non vedo programmi Rai, o li vedo in misura inferiore a quelli di altre emittenti televisive che non possono usufruire dei proventi di una tassa obbligatoria.
   Il canone introduce un principio di concorrenza sleale, come se in una gara di corsa un concorrente privilegiato, perché si chiama Stato, potesse cominciare con trenta metri di vantaggio. Dicono che un canone televisivo è misura comune all’Europa. Non è vero, solo in due terzi, l’Italia potrebbe raggiungere il terzo virtuoso. Inoltre quasi sempre le tv pubbliche che usufruiscono di una tassa pongono dei limiti molto stretti alla pubblicità, e la Bbc addirittura la vieta. La permanenza indiscussa di un canone impedisce, tranne casi rari come quello del nostro Aldo Grasso, di interrogarsi su cosa sia «servizio pubblico». Stabilisce un’arbitraria e ideologicamente polverosa equiparazione tra «pubblico» e «di Stato» (mentre molte trasmissioni di reti private fanno più «servizio pubblico» della Rai). Crea assuefazione all’idea che «servizio pubblico», che magari potrebbe limitarsi a una sola rete sottratta al mercato, debba dotarsi di un apparato elefantiaco, pletorico, terreno di caccia e di conquista dei partiti che continuano ad esserne i veri «editori». L’indiscutibilità del canone, ancora, ignora per sempre la volontà popolare espressa in un referendum promosso dai Radicali nel 1995 in cui il 54,9% degli italiani (13 milioni e 736 mila) si proclamava favorevole a una pur parziale privatizzazione della Rai. Paghiamo tutti, certo, ma paghiamo una cosa ingiusta.