sabato 17 ottobre 2015

Corriere 17.10.15
Pillole per capire ?
35,5 l’aumento in percentuale degli americani nella fascia di età 4-64 anni che almeno una volta si è fatto prescrivere sostanze per il deficit di attenzione
di Maria Egizia Franchetti


«Qualcuno che ci venda metilfenidato\destroamfetamina? È una cosa seria». La richiesta di farmaci stimolanti, definiti cognitive enhancer nel mondo anglosassone, appare su un gruppo Facebook di studenti dell’Università Bocconi. Le reazioni sono per lo più sospettose. Prudenti. «Senza ricetta è illegale», ammonisce qualcuno. «Cosa non si fa per eccellere», commenta qualcun altro. Il punto è proprio questo: l’ansia da prestazione che, dalle élite accademiche ai lupi di Wall Street, sta cambiando l’approccio all’assunzione di sostanze. Sintomo di una visione iper positivista. Schiacciata dall’idea che nulla sia impossibile, come teorizzava il filosofo Byung-Chul Han nel libro «La società della stanchezza» (Nottetempo, 2012). Dai lotofagi di Erodoto alla nuova «Summer of love» di fine anni Ottanta, l’uso di principi attivi, naturali o di sintesi, è sempre stato un modo per aprire le porte della percezione. Le stesse pastiglie da rave party, che promettevano di ballare fino a dodici ore di fila senza avvertire la stanchezza, facevano parte di un rito collettivo: divertimento all’ennesima potenza, sballo, adrenalina. Come si è passati dagli aiutini «plug out», per staccare la spina, a quelli «plug in», per il massimo della concentrazione? Dal «bamboccionismo» alla sindrome da super lavoro?
Il business dei nootropi
Secondo uno studio condotto da Expert Scripts (società privata che promuove campagne di sensibilizzazione per un uso più sicuro e accessibile dei farmaci) su un campione di 15 milioni di pazienti, sono aumentati del 35,5 per cento gli americani nella fascia 4-64 anni che, tra il 2008 e il 2012, si sono fatti prescrivere almeno una volta una sostanza per il deficit di attenzione e l’iperattività. Il picco è stato rilevato proprio nel target 26-34 anni: se nel 2008 era l’1,5 per cento, cinque anni dopo è quasi raddoppiato (2,8 per cento). Non solo. Tra il 2005 e il 2011, in base a uno studio della Substance Abuse and Mental Health Services Administration, il numero di visite nei pronto soccorso associate all’uso non medico di stimolanti tra i giovani adulti è triplicato. E nel Regno Unito la destroamfetamina, sostanza per la cura della narcolessia, è il secondo farmaco più prescritto dai medici privati. Ricercatori del King’s College di Londra e della London School of Economics hanno scoperto che il 9 per cento degli studenti è ricorso a farmaci di questo tipo almeno una volta nei periodi di maggiore tensione. Acquistati spesso su siti offshore — i cognitive enhancer, assieme a cannabis e ansiolitici, sono i più venduti sul dark web — o da amici\conoscenti. Negli States c’è anche chi, come Michael Brandt — 26 anni, ex dipendente di Google — si è reinventato startupper: a San Francisco, con il socio Geoffrey Woo ha fondato la società Nootrobox. Il prodotto di punta, Rise, è un multivitaminico a base di caffeina, L-teanina (un aminoacido che si trova nel tè verde) e bacopa monnieri, un’erba che dovrebbe potenziare le capacità mnemoniche. L’integratore viene distribuito esclusivamente online e avrebbe già trovato investitori nella Silicon Valley. «Abbiamo solo 24 ore al giorno e cerchiamo di utilizzare il tempo nel modo migliore — sottolinea Brandt — . È questo il tratto che accomuna Google, Uber, Nootrobox e P90X (acronimo di Power 90 days extreme, programma di home fitness estremo, ndr )».
Test insufficienti sui sani
Perplesso sui sondaggi d’Oltreoceano, Gian Maria Galeazzi, docente di Psichiatria alla facoltà di Medicina dell’Università di Modena e Reggio Emilia, ritiene che il trend angloamericano sia sovrastimato. Posizione, la sua, condivisa da buona parte della comunità scientifica. Vero, però, che l’ambiente accademico si fa sempre più competitivo. Da Cambridge all’Ivy League, l’ossessione è il ranking, l’accreditamento. In Italia, dove la pressione è meno esasperata, i cognitive enhancer sono un fenomeno di nicchia. Non ancora censito. Secondo un’indagine svolta da Galeazzi su 363 studenti di Medicina della facoltà romagnola, oltre il 70 per cento ritiene rischioso l’uso di stimolanti. E però, il 60,3 per cento sarebbe propenso ad assumerli, se fossero sicuri. «Disporre di dati è molto difficile — concorda Agnes Allansdottir, ricercatrice a Toscana Life Sciences e responsabile del progetto Nerri (Neuro enhancement research innovation), finanziato dalla Comunità europea — . L’uso appare ancora limitato, sebbene sul web si possa acquistare di tutto». Simona Pichini, ricercatrice dell’Osservatorio Fumo, Alcol e Droga dell’Istituto Superiore di Sanità, ritiene che in Italia, in mancanza di rilevazioni ufficiali, il problema riguardi poche migliaia di persone: «Universitari bene con istruzione medio-alta, ricercatori di punta, professionisti...». Gli effetti collaterali? «Una possibile alterazione del ciclo sonno-veglia e del senso di fame — spiega l’esperta — . Se non dormi per cinque giorni, è normale sentirne le conseguenze». Non solo. «Mentre sui malati questi farmaci sono stati ampiamente testati, non sappiamo come possano agire sui sani». Tra i rischi di un uso prolungato dipendenza, allucinazioni, paranoie e depressione. Senza trascurare un altro inconveniente: si incamerano più informazioni, ma l’effetto non è duraturo. Tradotto: con gli stimolanti cognitivi non si diventa più intelligenti e non si acquista una memoria elefantiaca.