giovedì 15 ottobre 2015

Corriere 15.10.15
Il Pd ostaggio delle primarie: sono il marchio del partito
Il premier non ha molti candidati a livello locale che condividono la sua linea
Ma per legittimarsi non può rinunciare al metodo di scelta dal basso che rischia di danneggiarlo
di Michele Salvati


La prossima primavera eleggeranno i loro sindaci quattro importanti capoluoghi di regione: Milano, Napoli, Torino e Bologna e sembra quasi certo che ad essi si aggiungerà il più importante di tutti, Roma. I commentatori politici sono già in fibrillazione: cinque comuni di quella stazza (ma fossero anche solo quattro) sono un test politico per il governo, una vera mid-term election , forse altrettanto importante del referendum costituzionale. E probabilmente in grado di influenzarlo, perché quasi sicuramente questo si svolgerà in autunno, dopo le elezioni amministrative. Come è messo il Partito Democratico di Matteo Renzi, quello che deve reggere alla prova elettorale amministrativa per continuare la sua corsa verso le elezioni politiche del 2018 (se non prima) con una buona probabilità di vincerle?
La risposta, ovviamente, dipende dalle diverse situazioni nelle quattro (cinque) città appena ricordate, e naturalmente nelle altre in cui si andrà al voto. Ma qualcosa si può già dire in via generale. Ai tempi della Prima Repubblica la scelta dei candidati per un consiglio comunale non faceva problema: li nominava il partito tra il proprio personale politico con i processi formalmente democratici e sostanzialmente oligarchici che erano tipici di tutti i partiti. Gli elettori questo si aspettavano e votavano i candidati del partito cui si sentivano più vicini: il consiglio comunale eleggeva poi il sindaco tra i propri membri.
Dopo lo sconquasso di Mani Pulite e la scomparsa dei partiti tradizionali, una nuova legge ha fatto del sindaco il protagonista del confronto: il candidato sindaco è diventato un personaggio mediatico, e l’elettore non si aspetta che debba essere un politico di partito. Anzi. Nel clima antipartitico tuttora dominante, essere un politico di professione può costituire addirittura uno svantaggio: nel Pd, a Milano, conosco giovani politici che avrebbero tutte le carte in regola per essere buoni amministratori della città, ma non hanno la notorietà personale, il peso mediatico, i riconoscimenti esterni per trascinare alla vittoria il partito che li potrebbe scegliere. In buona misura, oggi è il candidato che trascina il partito, piuttosto che viceversa. Se a questo si aggiungono i conflitti interni che agitano il Pd dopo il ciclone Renzi, si può capire perché non si tratti di una scelta facile.
Tra tutti i «quasi-partiti» o «post-partiti» 2.0 il Pd è l’unico che ha fatto delle primarie il suo principale criterio di scelta per la selezione delle cariche istituzionali monocratiche e ormai sono circa un migliaio i candidati selezionati in questo modo. Non solo: la scelta delle primarie è imposta dallo Statuto che il Pd si è dato nel 2008, poi variamente modificato fino all’anno scorso.
Ormai è ben noto che aver messo insieme la logica europea del partito-associazione e quella americana delle primarie regolate per legge crea problemi: alla base del partito ci sono due insieme di decisori, gli iscritti al partito, un numero piuttosto ristretto, e i partecipanti alle primarie, un numero potenzialmente molto grande e dotato dell’ultima parola: lo Statuto cerca proprio di precisare il ruolo degli uni e degli altri.
Ai tempi dell’Ulivo, in una situazione di grande mutamento, le primarie vennero introdotte proprio perché si temeva che gli iscritti ai due partiti che formavano la coalizione non avessero il polso dei potenziali votanti, e che a questi dovesse essere data voce nella scelta delle cariche per aprire la porta all’innovazione politica e alla partecipazione democratica.
Ciò sarebbe però avvenuto se i votanti alle primarie fossero stati molto numerosi, un campione significativo di coloro che poi avrebbero votato nelle elezioni per le cariche istituzionali.
Ma qual è la giustificazione delle primarie se a queste partecipano un numero ristretto di votanti, motivati da logiche di appartenenza ideologica o, ancor peggio, condizionati dalla mobilitazione degli interessi? Entrambe le situazioni sono possibili: la prima nei comuni in cui i vecchi quadri anti-renziani profitteranno della designazione del sindaco per portare avanti la loro battaglia; la seconda in quelli in cui l’inquinamento da parte degli interessi è forte. E le due situazioni si possono sommare. In queste circostanze le primarie potrebbero dare indicazioni altrettanto distorte degli orientamenti dei potenziali elettori che una designazione da parte degli iscritti e degli organi di partito da loro eletti.
Mancando di un sufficiente controllo del partito a livello locale, Renzi non dispone di un numero adeguato di potenziali candidati forti che condividano la sua linea politica: il rischio di uno scacco come nelle elezioni regionali della Liguria è elevato.
D’altra parte, nonostante i suoi recenti mugugni, egli non può abbandonare il metodo delle primarie, non tanto perché così prescrive lo Statuto, ma perché le primarie sono il logo del partito, il suo marchio, la ragione per cui si chiama democratico. In queste condizioni, e data l’entità della posta in gioco, credo che per Renzi si preannunci una stagione di impegno a livello locale di grande difficoltà e fatica, che si aggiunge ai compiti, già molto gravosi, che affronta a livello nazionale e internazionale.