lunedì 12 ottobre 2015

Corriere 12.10.15
Kefiah e sassi: le ragazze dell’intifada
«Una volta i nostri fratelli non ci avrebbero dato il permesso, adesso non riescono a fermarci»
di Davide Frattini


GERUSALEMME Il ragazzo le prende le mani e l’aiuta a raddrizzare la fionda, insieme tirano l’elastico per scagliare la pietra. Tutti e due hanno il volto coperto dalla kefiah bianca e nera, quella che Yasser Arafat portava appoggiata sulla fronte in modo da riprodurre la forma della Palestina storica, dal fiume Giordano al Mediterraneo. Altri tempi, altra intifada.
Allora c’era un raìs che dava gli ordini alle fazioni e provava ad amministrare la violenza. Adesso i giovani escono di casa senza che i genitori sappiano se stanno andando a scuola, dagli amici o a combattere l’esercito israeliano ai posti di blocco.
L’hanno chiamata la rivolta dei coltelli, dei lupi solitari, attentatori che decidono di agire chiusi nelle loro camere, esaltati dai video che circolano su Internet. Le battaglie per strada sono invece un rito collettivo, un’adunata di quartiere, come a Shuafat area borghese nella parte araba di Gerusalemme dove le studentesse universitarie partecipano perché anche loro sono convinte di poter cambiare la situazione. O comunque è meglio che restare a casa con le madri. È tra questi palazzi che era cresciuto Mohammed Abu Khdeir, l’adolescente arabo bruciato vivo l’estate scorsa da estremisti ebrei che volevano vendicare il rapimento e l’uccisione di tre giovani israeliani.
«Una volta i nostri fratelli o cugini non ci avrebbero mai dato il permesso, adesso non riescono a fermarci: siamo maggiorenni, possiamo prendere le decisioni da sole», dice una donna all’agenzia France Presse . Periferia di Ramallah, attorno esplodono le granate assordanti sparate dall’esercito, i palestinesi preparano le bottiglie incendiarie. L’università Bir Zeit non è lontana, molti dei militanti sono studenti. Come la giovane che dice: «Rappresentiamo metà della popolazione, abbiamo il diritto di esserci, per noi è una questione di coscienza». Rappresentano il 50 per cento di chi vive in Cisgiordania e la maggior parte ha tra i 15 e i 24 anni.
«È la generazione perduta nata dopo gli accordi di Oslo — scrive Amira Hass sul quotidiano della sinistra Haaretz —. Non vedono arrivare lo Stato indipendente che era stato loro promesso, non appartengono a organizzazioni politiche, non hanno leader da seguire. Hanno paura ma si sentono orgogliosi perché gridano tutti insieme “ne abbiamo avuto abbastanza”». Anche del presidente Abu Mazen che a ottant’anni è considerato fragile e inefficace, se non un dittatore che continua a rinviare le elezioni per la successione. «Aveva annunciato una mossa fenomenale nel suo discorso alle Nazioni Unite — commenta una ragazza sempre alla France Presse —, stiamo ancora aspettando. Questa intifada va avanti perché abbiamo smesso di ascoltare il nostro presidente».
Dalla Muqata il raìs sembra almeno in grado di controllare i Tanzim, la fazione più giovane e militante del suo partito Fatah, potenti nei campi rifugiati.
«Se dovessero respingere i suoi ordini e prendere parte in massa alle violenze — spiega Amos Harel, specialista israeliano di cose militari — sarebbe il segno che la crisi sta deteriorando verso il baratro». Marwan Barghouti, il loro leader, è in un carcere israeliano condannato a cinque ergastoli per l’organizzazione degli attentati durante l’intifada tra il 2000 e il 2005.
Donne sono anche quattro tra gli attentatori di queste settimane: ieri mattina una ha cercato di far esplodere una bombola del gas nascosta nell’auto, è rimasta ferita assieme a un poliziotto.
Le ragazze sono in prima fila ai funerali dei palestinesi uccisi negli scontri, oltre venti dal primo ottobre (sette di loro colpiti dalla polizia dopo l’assalto al pugnale). Lo Shin Bet, il servizio segreto interno, sta valutando se proporre al primo ministro Benjamin Netanyahu di vietare i cortei funebri: è alla fine delle cerimonie, dopo il tramonto, che la lotta diventa ancora più intensa, i giovani lasciano il cimitero per muoversi in gruppo verso le postazioni dell’esercito.
@dafrattini