Corriere 12.10.15
Esmahan Aykol
«Ci fa paura anche parlare al telefono»
La scrittrice è tornata nel suo Paese dopo la rivolta di Gezi Park
«Ma oggi mi tormentano le bugie e la disinformazione. Siamo tutti sotto pressione»
intervista di Elisabetta Rosaspina
È successo di nuovo. Prima ancora di far luce sull’attentato più cruento della storia della Repubblica, il governo turco ha imposto il buio all’informazione nazionale. Ai giornali e alle tv, ai siti online è arrivato immediatamente l’ordine di non pubblicare le immagini della strage. Per non urtare gli animi sensibili e non creare panico, è stata la bonaria spiegazione di un portavoce dell’esecutivo. Con una minacciosa postilla: a chi disobbedisce sarà imposto un blackout totale.
Era già accaduto sei mesi fa, quando il giudice Mehmet Selim Kiraz fu preso in ostaggio nel suo ufficio, al tribunale di Istanbul, da due terroristi, morti assieme a lui durante il blitz della polizia per liberarlo: ai giornali che avevano pubblicato le foto del procuratore con la pistola alla tempia fu negato l’accredito per seguire i funerali, mentre Twitter, YouTube e Facebook furono messi di fronte all’alternativa: cancellare quelle immagini o sparire dalla Turchia virtuale.
Esmahan Aykol, 45 anni, giornalista e autrice di una serie di romanzi polizieschi di successo, ambientati a Istanbul, dove vive («Hotel Bosforo», «Divorzio alla turca», «Appartamento a Istanbul», «Tango a Istanbul», tutti pubblicati in Italia da Sellerio), non trattiene il suo sdegno: «Non soltanto i media. Anche le comunicazioni sui social network erano praticamente inaccessibili l’altro giorno. Hanno bloccato un’altra volta Facebook e Twitter».
Chi? È sicura? Forse erano sovraccariche le linee.
«Figurarsi! È così chiaro! È la censura del potere. Accade sempre dopo un attentato, e accadrà ancora. Il mio Paese è quello che ha più giornalisti in carcere al mondo. Più della Cina, più di qualsiasi regime in Africa. L’ultimo, il direttore di Today’s Zaman , Bülent Kene, è stato arrestato per un tweet. Qui in Europa non potete capire: per finire in carcere, da noi, basta un tweet considerato offensivo verso il presidente o il primo ministro».
E per le foto di un carico d’armi, scortato dai servizi e fermato alla frontiera turco-siriana, Can Dundar, direttore di «Cumhuriyet», è stato minacciato di ergastolo, in giugno.
«Non è il solo. Il presidente Erdogan e il governo controllano almeno il 70% dell’informazione. Hanno detto che quelle armi erano medicine, destinate alla minoranza turca che combatte in Siria e non all’Isis. Ma non è vero. Qualunque giornalista o giornale indipendente è sotto pressione. Abbiamo paura perfino di parlare tra amici per telefono: ci sentiamo controllati. Sono venuta in Sicilia, qualche giorno, per il Festival delle Letterature migranti, e appena arrivata in Europa mi sono resa conto di quanto io sia stressata a Istanbul».
Che cosa la tormenta di più?
«Le bugie, certamente. La campagna di disinformazione: non accendo più la tv. Ma anche assistere al collasso del Paese. I mezzi pubblici non funzionano, le università neppure, tutto l’apparato statale lavora soltanto al servizio dell’establishment e per consolidare la posizione degli uomini che sono al potere. Tutto il resto va alla deriva. Un esempio? Chiami la polizia e non arriva. È successo a me: c’era una rissa davanti alla mia porta, ho chiamato il pronto intervento e non mi ha nemmeno risposto. Non ci è scappato il morto, per fortuna, ma in altri casi sì. È diventato difficile vivere a Istanbul».
Si era trasferita a Berlino, perché è tornata?
«Dopo la rivolta di Gezi Park, ho sentito che dovevo tornare e che il mio posto era qui, dove si è formato un movimento di giovani impegnati a cambiare le cose».
Quindi è possibile cambiare qualcosa.
«Forse è possibile. Ma sarà lunga. Il 40% dell’elettorato vota Akp, il partito di Erdogan. Eppure nessuno lo ammette. Quando salgo su un taxi, il tassista già capisce che non sono una sostenitrice dell’Akp, perché non porto il velo. Se iniziamo a parlare di politica e io gli dico che non conosco nessuno che voti per Erdogan, mi risponderà sicuramente: neanch’io. Invece in tanti lo votano, perché ha carisma e perché fa propaganda fin nelle scuole».