mercoledì 9 settembre 2015

Repubblica 9.9.15
Il dilemma di Matteo e il segnale che manca
È inevitabile che il compromesso ruoti intorno all’articolo 2
Anche per non far diventare decisivi i voti di Verdini
di Stefano Feltri


COME ha detto ieri sera Renzi ai senatori del Pd, la riforma del Senato poggia su un impianto condiviso con alcuni problemi aperti. Non ha detto molto di più, il premier, ma su un punto è stato esplicito: correzioni e modifiche si possono fare, ma non si tocca il famoso articolo 2, quello che esclude l’elezione diretta dei nuovi senatori. Il che significa lasciare tutte le pedine nelle loro caselle di partenza, visto che è proprio l’articolo 2 l’oggetto della discordia. Chi si attendeva molto di più, chi sperava di vedere sciolti i nodi della riforma, è rimasto deluso; ma in verità erano pochi quelli che si illudevano, la maggior parte degli osservatori aveva capito che l’ora X, il momento delle decisioni, è spostata in avanti.
Del resto, Renzi è oscillante nei confronti della minoranza. Un giorno la maltratta e la descrive come un gruppo di sopravvissuti nostalgici; un altro giorno sembra riconoscerle un ruolo nel percorso di ripresa del paese. Anche ieri sera, da un lato ha lasciato intendere che i dubbiosi in realtà sono affezionati al vecchio bicameralismo paritario (sottinteso, per difendere le loro poltrone al Senato); dall’altro, ha parlato di “impianto condiviso” della riforma, il che escluderebbe pulsioni nostalgiche. A questo punto il buonsenso dovrebbe suggerire di affrontare gli aspetti in sospeso, proprio perché sono pochi, senza eccessi polemici da entrambe le parti e senza furore semi-ideologico. Perché questo accada occorre però un’iniziativa che finora è mancata. È come se il segretario-premier non avesse in cuor suo sciolto il dilemma: accordo, cioè compromesso, all’interno del suo partito oppure sfida in Parlamento all’ultimo voto?
DA GIORNI l’incertezza è figlia di questo interrogativo ancora senza una risposta definitiva. Renzi, per suo carattere e per ragioni di immagine, tende ad andare avanti come un treno nella convinzione che “alla fine i voti ci saranno”, come ripete il ministro Boschi. Forse non credeva nemmeno lui che gli irriducibili fossero veramente tali: si attendeva da un momento all’altro lo scioglimento dell’iceberg bersaniano e il rientro nei ranghi dei contestatori alla spicciolata. Senza dubbio è ancora questa la sua segreta speranza nella guerra dei nervi con la minoranza. Ma, in mancanza di una mediazione, ogni giorno che passa rende più complicato cambiare idea. Difficile per Renzi, che esclude di metter mano all’articolo 2; e difficile per la minoranza che ha fatto dell’elezione diretta e quindi della revisione di questo stesso articolo la sua bandiera.
Tuttavia è chiaro che uno sbocco è indispensabile. Il presidente del Senato aspetta un segnale politico dall’interno del Pd prima di prendere le sue decisioni sulla procedura parlamentare. E si capisce: la questione non è tecnica, ma tutta politica all’interno del Pd. La paralisi si è prodotta nel partito e la soluzione va trovata lì. Se il premier- segretario non avvia egli stesso una vera iniziativa - e ieri sera non lo ha fatto spetterà alla minoranza compiere il primo passo. In realtà dovrebbe essere interesse del leader stringere un accordo con il capo dell’opposizione interna (Bersani). Un accordo alla luce del sole, anche se questo dovesse trasmettere l’impressione di una cogestione del partito: innovatori renziani accanto a qualche rappresentante della vecchia guardia.
Comunque sia, chi ha più senso di responsabilità lo dovrà mettere in campo. Se il cuore del problema è l’articolo 2, per quanto la materia sia indigesta al grande pubblico, sarà impossibile “non toccare” quel testo. In qualche modo il compromesso deve ruotare intorno a tale fatidico articolo. Ma il presidente del Consiglio dovrà sentirsi rassicurato: la revisione non implica che si ricomincia daccapo l’iter costituzionale. È necessario su questo punto molta chiarezza e anche un comportamento parlamentare virtuoso. Altrimenti rischiano di diventare davvero decisivi i voti di Denis Verdini. Esito negativo sul piano politico per la minoranza Pd, ma ancor più per il premier.