Repubblica 5.9.15
La coppia diabolica.
Il destino incerto del piccolo Achille condannato a sopravvivere alla follia dell’acido
Il neonato concepito da Martina Levato e Alex Boettcher nel periodo delle aggressioni è ora al centro di una contesa giudiziaria
Ma l’esito più probabile resta l’adozione
Gli obiettivi degli agguati erano anche altri Tutti coloro che avevano avuto una relazione sia pure fugace con la ragazza L’elenco viene fornito all’amante da un’amica di lei. Lui, da padrone, sta con entrambe Il piano era concepito in un percorso di purificazione della ragazza. Doveva essere cancellato il volto di chi l’aveva guardata o baciata Le due vittime, Barbini e Savi, non hanno mai ricevuto una parola di scuse dagli aggressori
di Carlo Verdelli
Achille è un neonato sano, bellissimo come tanti, sfortunato come pochi. I genitori, quelli dell’acido, stanno in cella, con accuse tremende e una condanna di 14 anni a testa, per adesso. Ma l’ombra che si allunga su questo minuscolo Achille viene anche dalla gestazione che ha subìto, i rischi di salute che ha corso mentre stava nel grembo che doveva proteggerlo, la cascata di dolore che gli ha fatto da liquido amniotico durante l’approdo in questa scheggia di Milano bene e di giovani vite strapazzate. Non basteranno a compensare le babbucce bianche che il magistrato Marcello Musso, lo stesso che ha incastrato chi l’ha concepito, gli ha portato di persona alla clinica Mangiagalli, insieme a un cartoncino scritto a mano: “Con infinita tenerezza, per un lungo cammino”.
Achille Levato, in un futuro prossimo Levato-Boettcher o solo Boettcher, in un futuro appena più remoto chissà, dipende se verrà dato in affido o in adozione, ha un ciuffetto di capelli neri, come la madre Martina (il padre, Alexander, è biondo). Vive in una casa famiglia fuori città e almeno fino a tutto settembre si sobbarcherà una quarantina di minuti di macchina una volta la settimana per raggiungere i genitori nel carcere di San Vittore di Milano e rimanere con loro, separatamente, un’ora a testa o poco più. La prima volta è successo venerdì scorso, il 28 agosto, ed era anche la prima volta che Achille rivedeva sua mamma: il giorno di Ferragosto, con una decisione del Tribunale dei minori molto drastica e altrettanto dibattuta, era stato separato da lei subito dopo il parto, senza neanche il conforto di un minimo contatto. Un’apparente crudeltà, motivata dai giudici con l’esigenza di evitare al piccolo l’illusione biologica di un legame, e il primo attaccamento al seno pare fondamentale, che ancora non si sapeva, e non si sa, che esito avrà. L’incontro, comunque, pur presidiato da guardie, psicologi, educatori e assistenti sociali, è andato bene. Martina gli ha dato un biberon, con dentro un po’ del latte che le “tirano” ogni giorno e poi congelano per passarlo, mischiato con altre sostanze, al figlio; l’ha carezzato, lui s’è addormentato e poi lei ha pianto, cosa che non le succede spesso almeno da quando è stata arrestata, la notte del 28 dicembre, dopo la devastazione di Pietro Barbini.
Tra le infinite scempiaggini scritte e ascoltate sul tema, che in tv è ormai un appuntamento fisso del pomeriggio, ce ne sarebbe una che le batte tutte. La Levato che dice: “Se qualcuno buttasse dell’acido su mio figlio, lo ammazzerei”. Non esattamente la frase migliore per convincere dei giudici, già piuttosto dubbiosi, a lasciarle il bambino. I plotoni di avvocati che si stanno schierando per difendere lei (plotoni anche per Alexander; più misurata, in tutti i sensi, la tutela giuridica del terzo uomo, Andrea Magnani) si sono affrettati a smontare la bestialità ma senza una vera smentita ufficiale. Il che è molto coerente con l’andamento incoerente di questa tragedia criminale, che non ha precedenti per qualità (premeditazione, pedinamenti, esecuzione) e serialità dei delitti, dove non c’è un movente umanamente comprensibile per nessuno dei quattro casi a giudizio, dove i carnefici, fino all’altro ieri, erano bravi o bravissimi ragazzi, ancora oggi difesi dai loro genitori come se la colpa fosse tutta di quell’altro o di quell’altra, e dove le vittime, quattro, avrebbero potuto essere cinque o forse più. La lista degli obiettivi da punire non era ancora stata spuntata per intero. Per esempio, l’ha scampata un ragazzo inglese, Amir, che vive a Londra, reo di un flirt con la Levato a Ibiza. La notte che la polizia preleva Martina dalla casa dei suoi a Bollate, lei ha appena finito di chattare proprio con Amir, per perfezionare la trappola in cui attirarlo. Il che è doppiamente angosciante se si considera che solo qualche ora prima la stessa Martina aveva gettato due secchiate di acido muriatico in faccia a Pietro, l’ex compagno del liceo Parini, stessa colpa di Amir. Con lei, durante la mattanza, l’idolatrato fidanzato Alexander Boettcher, che insegue la vittima già ustionata con un martello, e il complice Andrea Magnani, impegnato nelle retrovie a curare la logistica.
“L’acido lo usano in India i mariti per impedire che la moglie vada con altri, un po’ quello che è successo all’avvocato Lucia Annibali, con il suo compagno che si è preso 20 anni come mandante dell’aggressione. L’acido lo usa la mafia, come con il bambino Giuseppe Di Matteo, figlio di un pentito, per cancellare corpi e tracce. Ma il perché della scelta dell’acido da parte di Levato e Boettcher, lo confesso, non l’abbiamo capito”. Anna Introini è il giudice che ha celebrato il primo processo per direttissima ai due amanti (Magnani finisce in carcere solo a febbraio): 21 anni a ciascuno, ridotti di un terzo per via del rito abbreviato. “Lei ha continuato a ripetere di aver fatto tutto da sola, che Alex non c’entra niente e che l’idea di usare lo sfregio liquido gliel’aveva data Magnani. Mah, quello che risulta è che Martina e Alex, l’estate prima, vanno in vacanza in Grecia insieme a un’amica, Elena. Lui sta con tutte e due, è il padrone. Alla fine chiede a questa Elena nomi e indirizzi di tutte le relazioni precedenti della Levato. E nell’elenco c’è Barbini”.
Sotto gli occhi azzurri e svelti del giudice Introini, capaci di commuoversi alle lacrime davanti alle prime foto di Pietro Barbini dopo l’agguato, passa solo l’ultima stazione di questa surreale via Crucis, e su quella sentenzia. Ce ne sono altre tre, tutte riguardanti ragazzi che hanno o avrebbero fatto sesso con Martina, riunite in un solo processo diviso in due (abbreviato per Levato e Magnani, ordinario per Boettcher), inizio a metà settembre, quando Achille compirà il suo primo mese di vita.
La prima stazione risale al 19 maggio, tentata evirazione di Antonio Margarito con un coltello: la Levato dirà di aver subito violenza, lui la denuncerà per calunnia e tentata evirazione. Si ricomincia, stavolta con l’acido, il 2 novembre: ne fa le spese uno studente della Bocconi, Stefano Savi, che nemmeno sa chi sia Martina ma ha il torto di somigliare proprio tanto a Giuliano Carparelli, che invece con lei c’è stato sì, an- che se non la ricorda bene, in una notte alcolica, sul divano di un priveé. Savi viene sfigurato per uno scambio di persona, ma la sentenza per Giuliano è solo rimandata. Il 15 novembre, infatti, tocca a lui, solo che piove, Carparelli ha un ombrello, si ripara, si salva. Poi Barbini, 28 dicembre.
Martina Levato, 23 anni, fuoriclasse del liceo Parini, master in Bocconi, partorisce con taglio cesareo il 15 agosto. Se si tolgono i 280 giorni della gravidanza, il concepimento di Achille dovrebbe risalire ai primi di novembre. Il che significa che almeno in due assalti con l’acido, se non in tre, Martina è incinta, sa di esserlo, probabilmente lo sa anche il signor Boettcher, gestore di un discreto patrimonio immobiliare di famiglia (lei dice che è un “amministratore delegato”), scadente negli studi ma abilissimo nei rapporti, il superuomo di 30 anni che ha conquistato corpo, cuore e testa di Martina, senza però prendersene cura. Posto che lui non abbia nessun ruolo nei delitti (lo ripete, inascoltato e inascoltabile, dal giorno dell’arresto in flagrante davanti al corpo martoriato di Barbini), niente fa per impedire che la madre del suo primo e unico figlio metta a rischio se stessa e il feto. Tutta la saga del coltello e dell’acido nascerebbe da qui, dai veleni di un amore tossico e sbilanciato, con Alex che può permettersi ogni licenza (è anche sposato e continua a vivere, non separato, con una meravigliosa ragazza croata, Gorana) e con Martina che invece si convince di dover espiare ogni peccato per essere finalmente pura al cospetto del suo immenso amato. Ma invece di chiudersi un convento, si emenda cancellando letteralmente il volto, e quindi l’identità, di chi l’ha toccata, baciata, carezzata. Nessuno è ancora riuscito a stabilire chi sia il dominus tra i due, neanche la perizia psichiatrica che li ha comunque giudicati capaci di intendere e volere al momento dei crimini, e anche dopo. Difficile non solidarizzare con la signora Gorana che, scoppiato lo scandalo, si è presentata in Questura con una delicata piantina grassa in mano: “Grazie per avermi liberato di lui”. Anche l’altra moglie coinvolta, la bielorussa Yuliya, da due anni signora Magnani, sembra aver preso atto che qualcosa si è rotto e non si aggiusterà. Da quando il suo Andrea è stato rinchiuso a febbraio a Opera, sarà andata a trovarlo un paio di volte; adesso che è stato trasferito a Monza, nemmeno quelle. L’allievo di ginnastica estrema del maestro Boettcher, impiegato modello con la fissa di essere troppo grasso, travolto dal fascino del leader, pur di compiacergli si è infilato in una vicenda molto più pesante di lui, ha acquistato dell’acido con una carta prepagata su Internet, è stato il telefonista con la parrucca che ha contattato Barbini, ha prestato la macchina e forse anche qualcosa di più nei momenti dell’azione. Ha anche confessato molto, il che ha trasformato la “coppia dell’acido” in un terzetto, sul quale l’infaticabile dottor Musso, 63 anni e due lauree (una in filosofia), ha caricato pure l’imputazione di associazione a delinquere, il 416, possibile solo in presenza di 3 persone o più. Proprio l’ex bancario Magnani, ormai licenziato e con la casa ancora sotto mutuo pignorata, l’ha fatto scattare. “La pena che si delinea nel secondo processo, se nel primo è stata di 14 anni per un episodio solo, non dovrebbe discostarsi tanto da altri 20 o 25 anni ”, ipotizza Musso, sommerso da torrette di carte nella sua stanza al Tribunale di Milano, dove passa più tempo che a casa. E quelle babbucce per Achille? “Per dare un segnale che la giustizia è fatta di uomini, che pur nel rispetto assoluto della legge, hanno dei sentimenti. La Levato viene dalla periferia, è una vittima sociale di se stessa, divorata dal bisogno di autoaffermazione, nello studio come nel privato”.
Quanto alle altre vittime, e non di se stessi, Pietro Barbini è al quindicesimo intervento chirurgico, lo aspettano altri 15 nei prossimi due anni per recuperare una fisionomia che adesso non ha, ha sospeso gli studi di finanza a Boston e con loro il sogno di un lavoro di immagine a contatto con la gente. Gli piace la musica, “magari cercherò un posto dove si mixa, nell’angolo buio di una discoteca”. Stefano Savi, altrettanti interventi subiti e da subire, le palpebre bruciate, la perdita dell’80% di funzionalità dell’occhio sinistro, cerca di uscire qualche sera, con un capellino e degli occhiali appena comprati; anche lui ha smesso di studiare, non riesce a leggere né a capacitarsi di quel che gli è accaduto. Lo specchio dove ogni mattina Pietro si guarda e rivive il suo incubo, Stefano ce l’ha accanto, vivente: un gemello monozigote, che l’aiuta a combattere il terrore di rimanere uno che fa ribrezzo agli altri. Nessuno dei due, né Pietro né Stefano, ha ricevuto ancora una riga di scuse o una richiesta di perdono.
Ormai da otto mesi Levato e Boettcher stanno a San Vittore, lei al femminile, lui al quinto raggio. Nessun eccesso, nessun problema con gli altri detenuti. Dispongono di sei ore di colloquio al mese: lei ne riserva 4 a lui e 2 ai genitori. Per il resto, freddezza e distacco assoluti verso il resto del mondo, qualche “mi dispiace” di circostanza in prossimità dei processi. Quanto al figlio, all’inizio Alex scriveva: “Vedremo se tenerlo, magari se è maschio”. Poi, dopo la nascita, è come se improvvisamente la scena fosse cambiata per entrambi. Dicono di volere a tutti i costi quel bambino, protestano perché le visite concesse sono troppo poche e troppo brevi. Indicano nei loro genitori, due insegnanti per Martina oppure la signora Patrizia, lasciata dal marito tedesco, che ha cresciuto Alex da sola, le persone a cui affidare Achille in attesa di potersene fare carico loro (altri parenti, entro il quarto grado, non ce ne sarebbero). Il Tribunale dei minori non sembra, per ora, dello stesso avviso: con un decreto provvisorio di 4 pagine, di cui tre dedicate a demolire la supposta capacità genitoriale di Martina e Alex, ha stabilito di nominare il Comune di Milano tutore provvisorio di Achille e di affidare un’indagine ai servizi sociali per valutare se i nonni siano adatti a occuparsi del neonato. Scadenza del mandato: 30 settembre. Dopo, due strade. O si proroga l’incarico al Comune almeno fino a fine anno o si decide subito. E in questo caso, viste le premesse, le condanne, i processi, l’ago sembra pendere verso l’ipotesi di dichiarare Achille adottabile, il che significherebbe un colpo di spugna sul suo breve passato, nome e cognome compresi. Significherebbe un colpo anche per Martina, soprattutto, che proprio attraverso la consapevolezza di Achille sembrerebbe nell’ultimissimo periodo avere scheggiato il tabernacolo dove ha collocato Alex. “Adesso ho un bambino, e viene prima di tutto”. Achille, forse, aiuterebbe la mamma a rinascere. Ma la mamma aiuterebbe Achille a crescere in armonia?
Il neonato col ciuffetto nero doveva chiamarsi Edoardo, come il nonno materno di Alexander, per altro da lui mai conosciuto, un’altra figura maschile mancante dopo quella del padre. Ma Edoardo Boettcher non suonava. Si è pensato a Cesare. Poi ha vinto Achille, nessun parente nei rispettivi alberi genealogici di famiglia. L’ira di Achille, che infiniti lutti addusse agli Achei. Achille il vendicatore (di Patroclo). Achille come il Brad Pitt di Troy, bello e imbattibile, salvo il dettaglio del tallone. Il piccolino trasportato in auto a San Vittore per incontrare un’ora a settimana i suoi genitori, e mai insieme, si merita già adesso un destino meno eroico. Due babbucce bianche e la banalità di un po’ di bene.