lunedì 28 settembre 2015

Repubblica 28.9.15
Addio Pietro Ingrao grande giovane vecchio del comunismo
Eretico, coscienza critica della sinistra, partigiano. Fu padre della Repubblica e presidente della Camera. Criticò la svolta della Bolognina. Aveva compiuto cento anni
di Filippo Ceccarelli


«E ora lente/ si riempiono, si nutrono/ della pioggia,/ figlie della solitudine:/ assenti al mondo,/ mutilate spoglie/ fuggite al loro tempo». Così comincia una poesia che Pietro Ingrao ha intitolato Statue , e anche per questo si ha qualche remora a fargli un monumento annaffiando questo straordinario personaggio di retorica e solennità.
Dodici anni orsono, d’altra parte, alla bella età di 88, in mancanza di taxi Ingrao salì per la prima volta in motorino e si fece condurre per tempo a Montecitorio, dove l’ex presidente della Camera, che pure avrebbe diritto a una macchina con autista, doveva presentare un libro. A 89 anni, vinta ogni residua diffidenza per la “lingua dell’impero”, riscoprì i Beatles.
Un giorno, con lieto scandalo, confidò che rimpiangeva Scelba. E dire che nel 1960 a Porta San Paolo la Celere, altrimenti detta “la Scelbere”, gli aveva spaccato la testa a manganellate, ma l’indomani era già di nuovo in piazza bendato come una mummia. Quando ai tempi del Vietnam arrestarono sua figlia, all’autorità di Ps che gliene dava comunicazione ruggì: “Buon sangue non mente!”
Che personaggio! Nei penultimi anni della sua vita centenaria, quando con ambigua formula si può dire che era ormai fuori dalla politica attiva, in realtà seguitò più di tanti a farla scrivendo del mare celeste di Sperlonga, ispirandosi alla quotidianità della sua colf filippina, immedesimandosi nel Bobo di Staino, girando per eremi e chiese a parlare di Gesù; e una volta, senza malizia, fece intendere di preferire a D’Alema la tabaccaia tettona di Amarcord, per la quale compose un delizioso epicedio.
Ma la sua vera e grande virtù è che egli fece tutto questo e molto altro ancora senza mai perderne in dignità. Sembra impossibile al giorno d’oggi, ma in Pietro Ingrao il candore coincideva con l’autenticità. Ed è questo in fondo che lo fa unico e grande; e per questo si ha qualche ritegno a bloccarlo su uno o sull’altro dei suoi cliché: l’Amleto Comunista lucido e dubbioso; il Ragionatore Instancabile che rafforzava i concetti con la mano a pigna, “c’è un punto” mormorava, “un punto...”; oppure il Patriarca di Lenola, nipote di un garibaldino di ruvida scorza contadina; o magari l’Eretico, l’Eterno Perdente, quando perdere non era senza conseguenze.
Figura politica d’altri tempi. Onestà assoluta. Mai un lamento. Ostinazione senza rigidità. Ingrao perseguì l’utopia dell’ideale, ma prima di tanti dovette riconoscere negli sguardi dei “compagni” lo sfinimento di una politica povera e debole. Come pure la coscienza che il linguaggio non aveva più «la capacità di definire le cose che ci stanno intorno». Eppure ancora oggi suscita ammirazione per quel suo comunismo a tal punto privo di burocratismi e ottusità da apparire quasi libertario. Del destino di quel nome — “comunismo” — Ingrao parlò in modo emozionante nel comitato centrale sulla svolta di Occhetto, nel novembre 1989: «Non un lamento di reduci, ma un grumo di vissuto».
Così forse alla fine è la sua esistenza a evocare qualcosa che supera il suo stesso tempo e assomiglia molto alla poesia, in senso alto, profetico. E viene in mente l’Ingrao che provava «non so se una stretta o uno stupore» dinanzi alla guerra, «quella sfilata di flotte in tv, quelle sagome scure sfreccianti in cielo». Oppure l’Ingrao che prima di ogni altro vide, più che la scissione, la “dissoluzione” del suo vecchio partito; e che mentre tutto veniva giù, «sapete, compagni — gli disse — mi sarebbe piaciuto andare in convento, ma invece ho scelto di rimanere nella metropoli, dove siamo tanti, di tanti luoghi e di tanti colori, e la libertà si costruisce qui dentro».
Poeta d’altra parte lo fu sul serio. Vinse i Littoriali nel 1934 con dei versi sulla bonifica delle paludi pontine. Ha continuato a scriverne fino a vent’anni fa, ma rifiutò il premio di Ciarrapico qualche centinaio di milioni. Ebbe serie sbandate in politica internazionale, Mao, Castro, perfino Khomeini, eppure nessuno ha mai potuto accusarlo di stalinismo.
Certo a volte l’entusiasmo del poeta era travolto dalla complicazione del teorico, e allora, per dire: «La mediazione prismatica che frantuma il rapporto col reale in un seguito di rifrazioni susseguentesi circolarmente senza cogliere mai un centro», frasi da inserto satirico dell’ Unità , e infatti, per quanto autentica, questa la si è presa da lì. Twitter era lontano, ma l’ingraismo, si scherzava, «ha i ragni in testa». Eppure il cuore popolare del Pci, dai fonditori lombardi ai gasisti bolognesi, dagli edili della capitale ai braccianti delle Calabrie, ha sempre adorato il vecchio Pietro; così come non c’è avversario, da Almirante a Berlusconi passando per Dossetti, Moro, Fanfani e De Mita, che gli abbia mancato di rispetto.
La sua biografia rimane come minimo ammirevole. Era entrato nella “cospirazione”, come diceva lui, molto giovane, a Roma, in contatto col gruppo di Amendola, Lombardo Radice, Giolitti, Bufalini, Natoli, Alicata, Trombadori. Tessera del Pci nel 1940. Organizzazione clandestina in Calabria, ricercato nei boschi della Sila. Giornalista, nel 1943 a Milano, primo comizio a Porta Venezia con un microfono rubato da Elio Vittorini. Prima caporedattore e poi per dieci anni direttore dell’ Unità . Quindi protagonista, insieme con Amendola, del rinnovamento del Pci a spese della vecchia guardia. Di lì in poi punto di riferimento della sinistra del partito, sia pure all’interno di una dinamica governata da Togliatti.
È dopo la morte del Migliore che nacquero i primi sospetti di eresia e frazionismo. Sono dispute oggi abbastanza incomprensibili che investono teoria e pratica, diritto al dissenso e giudizio sul centrosinistra. Ma soprattutto l’accusa è che ci fossero gli ingraiani: Reichlin, Rossanda, Pintor, Trentin, il giovane Bassolino, Occhetto e l’intera Fgci, già messa sotto tutela. La resa dei conti all’XI congresso (1966). La destra di Amendola e Alicata ebbe la meglio, donde la diaspora dei seguaci. Ormai sconfitto, resta celebre l’esordio del suo discorso al congresso: «Non sarei sincero, compagni, se dicessi che sono rimasto persuaso». Breve periodo di solitudine e poi la presidenza del gruppo alla Camera, brillante intesa con il suo collega Andreotti. Al culmine dei trionfi di Berlinguer, nel 1976 Ingrao fu il primo comunista a ottenere un posto di rilievo nelle istituzioni. Stimato e imparziale, il nuovo presidente della Camera teorizzò quella “centralità del Parlamento” che si configura come il suo apporto al nuovo clima e alla linea del compromesso storico.
Alla fine della solidarietà nazionale senza polemiche rifiutò di continuare, ponendosi al crocevia fra dissenso e impegno, esilio e studio. Nel 1980 il ritorno in segreteria al fianco del Berlinguer della “diversità”. In realtà, da allora è difficile collocare Ingrao nella movimentata geometria del Pci di Natta e poi di Occhetto, cui prima concede e poi ritira la fiducia dopo la Bolognina e il cambio di nome. Con qualche approssimazione si può dire che riuscì tuttavia a rimanere sopra la nascita del Pds, le peripezie di Rifondazione, per rincorrere quel che di nuovo andava affermandosi. La nebulosa del sociale, la costellazione della democrazia, la lotta delle donne, il pacifismo, l’ecologia, la necessità di antidoti al formarsi di «conglomerati oligarchici a base finanziaria proiettati nel campo del sapere». Straordinaria figura di giovane-vecchio e vecchio-giovane alla ricerca di una cultura all’altezza dei tempi. Ma senza mai rinunciare a quella grazia inconfondibile di umanità che ancora si disvela in una delle sue ultime poesie, L’alta febbre del fare , che dice: «Per gli incolori/ che non hanno canto/ neppure il grido,/ per chi solo transita/ senza nemmeno raccontare il suo respiro,/ per i dispersi nelle tane, nei meandri/ dove non c’è segno, né nido,/ per gli oscurati dal sole altrui,/ per la polvere/ di cui non si può mai dire la storia,/ per i non nati mai/ perché non furono riconosciuti,/ per gli inni che nessuno canta/ essendo solo desiderio spento,/ per le grandi solitudini che si affollano/ i sentieri persi/ gli occhi chiusi/ i reclusi nelle carceri d’ombra/ per gli innominati,/ i semplici deserti:/ fiume senza bandiere senza sponde/ eppure eterno fiume dell’esistere”. Eppure. E bisognava ascoltarlo mentre la leggeva lui, con quella faccia, con quella voce.
Dopo la scissione rincorreva nuove sfide: la nebulosa del sociale, la costellazione della democrazia, la lotta delle donne Onestà assoluta. Mai un lamento. Ostinazione senza rigidità. Ingrao perseguì l’utopia dell’ideale. Non ci fu avversario che non lo rispettò.
A marzo aveva compiuto cento anni. Cent’anni vissuti da protagonista della storia italiana. Pietro Ingrao è morto ieri, nella sua casa di Roma dove viveva assieme alla figlia Chiara. Moltissimi i messaggi di cordoglio. A cominciare dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella che lo ha definito «patrimonio del Paese». Anche Matteo Renzi gli ha reso omaggio: «Mancherà la sua passione, la sua sobrietà, il suo sguardo che ne hanno fatto uno dei testimoni più scomodi e lucidi del Novecento, della sinistra, del nostro Paese». Centinaia i messaggi, specialmente su Twitter, dove Walter Veltroni lo ha salutato con un «Ciao Pietro». Mentre il leader di Sel Nichi Vendola ha twittato: «È stato la nobiltà della politica, l’amore per la vita, la ricerca della libertà. Giorgio Napolitano ha voluto ricordare la loro «amicizia indistruttibile». Oggi, dalle 15 alle 20, e domani, dalle 10 alle 20, a Montecitorio verrà allestita la camera ardente.
(Gianluca Modolo)