sabato 26 settembre 2015

Repubblica 26.9.15
In Marocco, tra i disperati che sognano l’Europa ogni giorno un assalto al “muro”spagnolo
La denuncia delle associazioni umanitarie: bimbi di tre anni da soli alla frontiera dell’enclave iberica in Africa
di Ana Carbajosa


OGNI MATTINA, al primo raggio di sole, Barakat cammina fino alla frontiera, tira fuori dal portafogli il passaporto siriano e lo mostra alla polizia marocchina. Ogni mattina gli ordinano in malo modo di andarsene: non può attraversare le poche decine di metri che lo separano dalla Spagna, da una richiesta di asilo e dalla sua famiglia. Al decimo tentativo il pollaiolo di Homs decide di cambiare approccio. Alle 7 del mattino il poliziotto marocchino lo manda via, ma questa volta Barakat aspetta e si nasconde tra la folla che ogni giorno si accalca al valico di frontiera di Beni Enzar, che separa la città di Nador dall’enclave spagnola in territorio marocchino di Melilla. Aspetta il cambio di turno, il momento esatto in cui il funzionario abbandona la garitta per prendersi un tè e lasciare il posto a un collega, e si intrufola di nascosto. Qualche decina di passi più in là, è in Spagna. Come nel caso di Barakat, 9 richieste di asilo alle frontiere spagnole su 10 vengono presentate a Melilla, secondo i dati dell’Unhcr. Melilla è la grande porta di ingresso del Sud Europa, da cui sono passati quest’anno 6.200 siriani, palestinesi e relative famiglie. Entrano lontani dagli obiettivi dei media, concentrati su altre frontiere dell’Europa, ma i loro drammi sono molto simili a quelli degli altri migranti. Per gran parte di loro, la Spagna è solo una tappa. L’obiettivo è il Nordeuropa, terra di opportunità lavorative. A differenza di Barakat, la maggioranza dei rifugiati che arrivano a Melilla ci riesce solo dopo aver pagato centinaia di euro ai «passatori». Così sono entrati la moglie di Barakat e i loro due figli – di 6 e 10 anni – dopo aver pagato 3.600 euro e diverse settimane prima che ci provasse il capofamiglia. In teoria, qualsiasi rifugiato che voglia chiedere asilo può presentarsi alla frontiera di Melilla e fare domanda presso gli uffici che il ministero dell’Interno spagnolo ha installato a Beni Enzar. E così è stato per alcuni mesi, in cui era possibile passare senza pagare. Ma il mercato dei trafficanti non perdona, e sono bastati due momenti di grande affluenza di rifugiati – a gennaio e aprile di quest’anno – per convincerli che lì fuori c’era un bottino a cui non erano disposti a rinunciare.
Oggi, nei piccoli caffè marocchini vicini alla frontiera, i mojarreb , come i siriani chiamano i passatori, fanno affari sulla pelle dei rifugiati. Spesso, quando i migranti non hanno molti soldi, come nel caso di Barakat, passano prima le donne e i bambini, e questo, negli ultimi mesi, ha lasciato una scia di famiglie separate dalla frontiera. «A Nador ci sono circa 600 siriani e la maggioranza di loro aspetta di poter varcare il confine per entrare in Spagna», spiega Azouz Boulkhbour, dell’Associazione marocchina per i diritti umani. È frequente anche che ci siano bambini soli, che hanno attraversato la frontiera grazie ai facilitatori facendosi passare per marocchini. «I bambini pagano fra i 700 e gli 800 euro. Abbiamo visto bambini soli perfino di 3 anni», racconta José Palazón, direttore di Prodein, un’organizzazione di Melilla che difende i diritti dei migranti. Quando riescono ad arrivare a Melilla, i rifugiati vengono alloggiati nel centro di permanenza temporanea per immigrati (Ceti), un luogo «destinato a fornire servizi e prestazioni sociali di base», con 512 posti e che attualmente, secondo i dati dell’Unhcr, ospita circa 1.600 migranti, nell’80% dei casi siriani. Lì rimangono per due o tre mesi, prima di essere trasferiti via mare, a gruppi di 180, in Spagna. Il Ceti è un posto dove per anni sono stati alloggiati gli immigrati dell’Africa subsahariana – normalmente giovani e senza famiglia – che scavalcavano la barriera al confine, a pochi metri dal centro. Qui maschi e femmine dormono separati. In questi giorni circa 500 bambini stanno aspettando nel Ceti il trasferimento nel continente, in condizioni penose. Aspettano senza sapere in quale giorno, e in base a quale criterio, un funzionario pronuncerà la parola magica: «Uscita».
Il Ceti, la barriera, la frontiera. Sono queste le prime impressioni della Spagna per i richiedenti asilo. Per molti è un’esperienza così amara che, se non avevano deciso di proseguire il cammino fino all’Europa, il passaggio per il Ceti finisce di convincerli. Barakat ora è a Madrid. Vive con la sua famiglia in un centro di accoglienza di rifugiati da quasi sei mesi. Gli hanno già spiegato che fra tre settimane circa se ne dovrà andare, che ha superato il tempo massimo di permanenza in un centro di prima accoglienza e deve trovarsi un appartamento. Non ha lavoro e senza un contratto nessuno gli affitta nulla. «In Spagna la gente è molto simpatica, ma qui non c’è lavoro. Appena mi daranno i documenti di residenza, ce ne andremo nel Nordeuropa. Abbiamo anche un cugino a Dortmund», racconta all’ingresso del centro di accoglienza. Un gruppetto di rifugiati si accalca intorno a noi: tutti fanno cenno di sì con la testa mentre parla Barakat. «Casa e lavoro, casa e lavoro», dicono a bassa voce.
(@El Pais/Lena, Leading European Newspaper Alliance. Traduzione di Fabio Galimberti) 4-continua