giovedì 24 settembre 2015

Repubblica 24.9.15
I padroni della Rete alla corte di Xi
Da Apple alla Walt Disney, ben trenta aziende per 3mila miliardi di dollari di capitale complessivo si sono presentate a Seattle in occasione della prima visita di Stato in America del presidente cinese.
Perché, nonostante il clima di tensioni, non possono fare a meno del mercato di Pechino
di Federico Rampini


Anche molti governatori si sono mossi per chiedere investimenti sul loro territorio Trump attacca: “Ci succhiano il sangue” Gli altri repubblicani usano guanti di velluto Cinque anni fa il 58% dei manager erano ottimisti sugli affari a Shanghai oggi sono scesi al 24%

Il presidente Xi Jinping, intervenendo martedì a Seattle, durante la sua prima visita da capo di Stato in America, ha spiegato che l’ideogramma cinese che raffigura la parola “popolo” assomiglia a due bastoni che si sostengono l’un l’altro

NEW YORK È ARRIVATO martedì su un Boeing 747. E poche ore dopo il suo atterraggio a Seattle, la Boeing ha annunciato la vendita di 300 aerei… e l’apertura di una fabbrica in Cina. Dopotutto, la Repubblica Popolare assorbe da sola il 25% delle vendite del gigante aeronautico. È una sintesi del “metodo Xi Jinping”. Nella sua prima visita di Stato in America, preceduto da turbolenze finanziarie e un rallentamento della crescita, accuse di espansionismo militare, critiche per i cyber-attacchi e lo spionaggio industriale, il presidente cinese ha già mostrato di non voler fare concessioni. Il suo messaggio al Big Business americano suona come una domanda minacciosa: potete fare a meno del nostro mercato?
Se la montagna non viene a Maometto, Maometto va alla montagna… Stavolta è toccato ai Padroni della Rete spostarsi in massa. L’imponente e roccioso Xi li ha “convocati”, letteralmente, molto più a Nord della Silicon Valley. Guai a non presentarsi. E così il chief executive di Apple, Tim Cook, ha dovuto partire in trasferta nell’estremità nordica della West Coast. È lo stesso Cook ad avere ammesso candidamente che il valore di Borsa di Apple è stato amplificato dal successo cinese: in quel paese ormai si vendono più iPhone che sul mercato americano o europeo. Insieme a Cook sono andati in pellegrinaggio a Seattle molti altri esponenti dell’economia digitale: in tutto 30 aziende, per una capitalizzazione complessiva di 3.000 miliardi di dollari. C’erano anche esponenti della Old Economy come un altro colosso californiano, la Walt Disney, rappresentata dal numero uno Bob Iger: lui sta facendo il conto alla rovescia per l’inaugurazione della nuova Disneyland di Shanghai, inizio 2016, un affare da 5,5 miliardi. C’era la donna che dirige General Motors, Mary Barra: anche per lei il mercato cinese rimane strategico malgrado la frenata nei consumi. E c’erano naturalmente i maggiorenti dell’economia locale da Bill Gates a Jeff Bezos, visto che Seattle è la San Francisco del nord, sede oltre che della Boeing anche di Microsoft, Amazon, Starbucks.
Chi l’ha detto che un autocrate non ha il senso dell’umorismo? Xi nel banchetto ufficiale ha evocato la sua campagna anticorruzione con un tocco d’ironia. A chi gli chiedeva se sia vero che in prigione per tangenti stanno finendo i suoi rivali politici in seno al partito comunista, lui ha risposto: «Non siamo mica House of Cards ». Gustosa battuta, tanto più che la popolare serie televisiva americana — una fiction a base di congiure politiche tra Casa Bianca e Congresso — è una delle più contraffatte in Cina dove se ne vendono Dvd pirata a centinaia di migliaia.
Il clima tra il capitalismo Usa e il governo di Pechino è inquieto. Lo U.S.-China Business Council, una Camera di commercio che riunisce le multinazionali Usa a Pechino e Shanghai, rivela un deterioramento. Nel periodico sondaggio fra imprenditori e top manager americani presenti su quel mercato, cinque anni fa prevaleva il 58% di ottimisti. Oggi quelli che vedono un futuro roseo per i loro affari in Cina si sono ridotti al 24%. E non è unicamente per il rallentamento della crescita cinese. Le aziende straniere — non solo americane — sono prese di mira da un governo che privilegia sistematicamente gli imprenditori locali e le sue aziende di Stato. I Padroni della Rete sono i più esposti. Google, Facebook, Twitter, Yahoo, sono bloccati di fatto o vietati esplicitamente per gli utenti cinesi. Altre aziende hi-tech stanno soffrendo. La californiana Qualcomm si è vista appioppare un miliardo di dollari di multa. La Microsoft è stata costretta dal governo di Pechino a fornire upgrade gratuiti sul suo software… anche agli utenti che hanno copie pirata. L’offensiva delle autorità talvolta si avvale di un alibi di ferro: Edward Snowden. La “gola profonda” della National Security Agency due anni fa accusò alcune imprese hi-tech di fungere da cavalli di Troia per lo spionaggio americano. Tra queste citò Cisco, un colosso della Silicon Valley che fornisce al mondo intero l’infrastruttura “fisica” di Internet, come i router e le centrali di smistamento del traffico online. Da allora Cisco ha visto cadere del 30% il suo fatturato in Cina, a vantaggio di concorrenti locali come Huawei. In generale le accuse di Snowden hanno offerto il destro a Xi Jinping per un giro di vite in nome della sicurezza: nuove leggi impongono alle multinazionali della Silicon Valley di rivelare a Pechino i loro codici e software brevettati; nonché di sottostare a limitazioni sul flusso di dati in uscita dalla Cina.
Anche quelle aziende americane che sostengono di avere più sofferto della pirateria cinese o di altre penalizzazioni su quel mercato, non hanno osato però disertare l’appuntamento di Seattle. Lo “zar di Internet” cinese, Lu Wei, aveva diramato gli inviti all’incontro con Xi Jinping specificando che eventuali assenze non sarebbero passate inosservate. Il messaggio inviato ai chief executive della Silicon Valley e dintorni: chi non verrà a omaggiare il presidente Xi, potrebbe essere oggetto di “attenzioni particolari” nel suo business in Cina.
L’ambivalenza dei capitalisti Usa è stata notata — e stigmatizzata — anche da Barack Obama. In un suo vertice con la Business Roundtable (una Confindustria americana), il presidente ha detto: «Quando avete dei problemi in Cina e volete il nostro aiuto, dovete uscire allo scoperto. Non potete dirci: ho subìto questo e quello, ma non fate il mio nome, non voglio si sappia che vi ho sollecitati». Un comportamento omertoso, insomma, dettato dalla paura di ritorsioni. Per quanto irritato, Obama ha deciso di non mettere in difficoltà i suoi imprenditori. La Casa Bianca ha rinviato l’annuncio di sanzioni contro il cyber-spionaggio cinese: erano pronte alla vigilia della visita di Xi, invece se ne parlerà dopo la sua conclusione.
Non sono soltanto gli imprenditori a sostenere una linea morbida verso la Cina. In pellegrinaggio per omaggiare Xi a Seattle sono andati anche numerosi governatori di Stati Usa, dal progressista Jerry Brown (California) al repubblicano Rick Snyder (Michigan). Tutti corteggiano gli investimenti cinesi sul loro territorio.
Nei primi 6 mesi di quest’anno le imprese cinesi hanno realizzato 88 operazioni per un valore di 6,5 miliardi di dollari. Un aumento del 47% rispetto all’anno precedente. Donald Trump, candidato alla nomination repubblicana alla Casa Bianca, sulla Cina dice cose tremende: «Sta violentando la nostra economia. Succhia il sangue dell’America ». Ma i suoi colleghi di partito che governano, dalla South Carolina all’Ohio, preferiscono usare i guanti di velluto. Dovrà tenerne conto anche Obama quando venerdì toccherà a lui accogliere Xi alla Casa Bianca. Le tensioni bilaterali sono molte: l’espansionismo cinese nei mari che bagnano diversi alleati dell’America (Giappone, Filippine); i cyber-attacchi contro i siti governativi americani incluso quello della Social Security. Ma più di ogni altra cosa preoccupa l’indebolimento della locomotiva economica cinese, una potenza industriale con cui l’America ha instaurato una profonda simbiosi da un quarto di secolo. E su questo Obama, volente o nolente, è costretto a tifare perché Xi sia l’uomo giusto nel momento giusto.