lunedì 21 settembre 2015

Repubblica 21.9.15
La primavera di Beirut contro il governo che “puzza”
Il movimento di protesta nato durante la crisi dei rifiuti torna in piazza.E ora vuole porre fine al “regime dei ladri”. Tra i manifestanti non ci sono divisioni di setta religiosa o credo politico. In una nazione provata dalla guerra nella vicina Siria, la situazione è sempre più tesa.
di Alberto Stabile


BEIRUT DAVANTI AL mausoleo che accoglie le spoglie di Rafiq Hariri e sotto gli ispidi minareti della moschea che lo stesso ex premier assassinato il 14 febbraio del 2005 volle ad immagine e somiglianza della sontuosa Moschea Blu di Istanbul, i dimostranti del “29 agosto” hanno dato sfogo alla rabbia verso i “padroni” del Libano. «Mettiamo fine al regime delle mafie» recita un graffito. «Siete cani da guerra», accusa un’altra scritta. «Il Libano non è il vostro negozietto all’angolo... », frase seguita dalla parola che più spesso ricorre sui muri dei palazzi e sui recinti dei cantieri: «Ladri!».
Tira una brutta aria a Beirut. Il Centre de Ville, o Downtown, come viene chiamato il cuore commerciale della città, è deserto. I negozi sono vuoti, o chiusi. I Palazzi del Potere sono resi inaccessibili da barriere di metallo e da doppie e triple spirali di filo spinato. La piazza dell’Orologio su cui si affaccia il Parlamento è isolata. Il Gran Serraglio, sede del governo, sembra una fortezza assediata da un’armata nemica.
Quella che era nata come una protesta civile, provocata da un problema pratico, come la mancata raccolta dei rifiuti urbani e il conseguente insopportabile accumulo di immondizie per le strade, è sfociata in uno scontro violento con l’esecutivo e in una sorta di contestazione globale dell’intera architettura del potere libanese, basata sulla spartizione delle principali cariche e funzioni dello Stato su base settaria, vale a dire alle tre principali sette religiose, cristiani, musulmani sunniti e musulmani sciiti. Ora, questo modello, un tempo osannato come il trionfo del compromesso contro l’autoritarismo dei regimi arabi, ha smesso di funzionare e lo Stato, le istituzioni libanesi sono sprofondate nella paralisi.
Il movimento che, a partire dalla crisi dei rifiuti, ha voluto segnalare il suo sdegno verso i responsabili del degrado lanciando lo slogan “ Puzzate!”, da cui ha preso anche il nome, non è chiaramente la causa, e neanche una concausa, dello stato in cui versa il Libano ma semmai una conseguenza della crisi. Una conseguenza che, secondo il politologo Rami Khouri, va accolta con favore: «Stiamo assistendo — dice — alle doglie che porteranno alla nascita del Cittadino libanese. La gente è scesa in piazza per una sua scelta individuale, non in quanto appartenente ad una setta o perché mandata a protestare dal leader della sua setta d’appartenenza. È una battaglia tra la dignità e i diritti dei cittadini e l’incombente, inossidabile struttura oligarchica del potere basata sugli interessi della famiglia e del clan».
Nella piazza dedicata a Riad al Solh, il primo Premier nominato dopo l’indipendenza ottenuta nel 1943 e ucciso dai nazionalisti siriani nel luglio del 1951, le tende dei movimento resistono sotto il solleone dell’interminabile estate libanese. Per due settimane è stato questo il cuore della protesta, quando un gruppo di 14 at-tivisti ha iniziato uno sciopero della fame contro il ministro dell’Interno e dell’ambiente, Mohammed Machnouk, chiedendone le dimissioni. Una delle voci più combattive era quella di Waref Sleiman, studente di architettura, sui vent’anni, sorriso accattivante, barba incolta, capigliatura ribelle. Chiedo a Waref perché hanno deciso di interrompere il digiuno. Risponde: «Quando abbiamo realizzato che il ministro Machnouk non ha la spina dorsale, abbiamo deciso di concludere lo sciopero delle fame », risponde sprezzante. Un gesto, precisa, che non va interpretato in alcun modo come un cedimento: «La strada è nostra, oggi e domani. Nessun ritiro, nessuna resa».
La risposta delle autorità, più che polemica è incomprensibile. «I dimostranti vogliono essere picchiati — ha detto Machnouk in un intervista alla tv di Hariri commentando i continui incidenti e la mano spesso pesante della polizia — così possono apparire sanguinanti alla televisione e far passare l’idea che sono vittime, che sono oppressi».
È in questa giostra di reciproche incomprensioni che la situazione si avvia verso una fase di stallo. Il governo ha varato un piano d’emergenza per i rifiuti approntato dal ministro dell’Agricoltura, Akram Shehayeb, druso, seguace di Walid Jumblatt. L’immondizia è sparita dalle strade (segno che la crisi si poteva forse evitare), ma il movimento ha respinto il piano che prevede la divisione dello smaltimento fra tutte e sei le province libanesi, e, secondo i militanti del “29 Agosto”, un’ulteriore moltiplicazione dei profitti garantiti alle ditte private assegnatarie dello smaltimento con il corredo della inevitabile corruzione dei politici.
In compenso, anche se l’aria a Beirut è diventata momentaneamente più respirabile, i movimenti della società civile si sono moltiplicati. Oltre a “Puzzate”, alla grande marcia hanno aderito anche “Siamo disgustati”, “Lasciateci soli”, “Chiediamo conto”. Quest’ultimo gruppo vuole introdurre il principio di responsabilità per una classe politica sostanzialmente irresponsabile.
A questa marea montante di scontento i politici possono oppure null’altro che il loro fallimento. Venticinque anni dopo la fine della guerra civile, lo stato non è capace di fornire ai cittadini acqua potabile, energia elettrica continuativa, scuole pubbliche accettabili, ospedali e cure mediche almeno per i più bisognosi. In Libano solo chi ha molto denaro vive bene e comanda.