martedì 15 settembre 2015

Repubblica 15.9.15
Quei segreti scritti nei geni
di Elena Cattaneo


MA anche d’inesistenti finanziamenti nazionali per la ricerca di base. E del coinvolgimento di decine colleghi da tutto il mondo. Hanno sequenziato (cioè letto) il genoma- Dna di 2.120 volontari sardi per trovare varianti che spiegassero cosa ci distingue come individui, popolazioni e persone a rischio di malattie. Ma perché proprio il Dna dei sardi?
Ciascuno di noi ha il proprio Dna. Si tratta di tre miliardi di lettere A, T, C, G combinate fra di loro. Ognuno di noi differisce dagli altri per “pochi” milioni di queste lettere. Queste lettere diverse (varianti) possono essere associate a un tratto “innocuo” come la dimensione degli occhi, oppure ad una malattia. È difficile distinguere. La Sardegna viene in nostro aiuto per la sua antica e complessa storia demografica che le ha permesso d’arricchirsi di rare varianti del Dna. Studiando tanti genomi sardi contemporaneamente, le varianti trovate di quelle lettere sono state associate sia a caratteristiche come l’altezza, sia a tratti clinicamente rilevanti (i livelli di lipidi o il rischio di malattia del sangue).
Impressiona l’enormità dei numeri che i tre studi rivelano. Il primo Dna sequenziato con il Progetto Genoma negli anni Novanta ha richiesto 13 anni e circa tre miliardi di dollari. Oggi leggere il Dna di un individuo richiede ore e 1500 euro. La vera sfida è “interrogare” tutte le varianti per trovarne il senso. Negli studi coordinati da Cucca, il Dna di ogni volontario sardo è stato letto e riletto quattro volte (alcuni anche 65 volte). Moltiplicando per quattro il numero di lettere di un Dna, risulta che ogni individuo è stato rappresentato nel computer da dodici miliardi di lettere. Moltiplicate per i 2.120 genomi studiati e immaginate di avere davanti agli occhi 22mila miliardi di lettere. Come trovare quelle rilevanti?
Per farlo servono statistici, bioinformatici e genetisti (ne servono di più in Italia). Insieme scoprono che i genomi sardi hanno quasi 17 milioni di varianti genetiche. Molte, oltre il 20 per cento, non si conoscevano, perciò non si potevano nemmeno studiare. Circa 76mila varianti, piuttosto comuni nei sardi, sono invece rare nella popolazione che tutti utilizzano come riferimento, derivante da un primo progetto di sequenziamento internazionale chiamato “1000 genomi”. Molte di queste “varianti sarde” — rare nel progetto “1000 genomi” — sono innocue. Prima dello studio coordinato da Cucca, un genetista, compilando la lista delle varianti, avrebbe indicato come “variante a rischio” una lettera diversa dalla norma che lo studio sardo dà invece per innocua (essendo senza effetti per chi la porta). Altre “varianti sarde” influenzano il livello di colesterolo Ldl, i livelli ematici dei lipidi e altri fattori di rischio. Altre ancora hanno effetto sull’altezza: i genomi sardi con una specifica lettera variata nel gene per un canale del potassio e un’altra nel recettore dell’ormone della crescita causano una riduzione della statura. Questi studi hanno quindi una doppia valenza. Da una parte permettono di scoprire e caratterizzare varianti potenzialmente pericolose, dall’altra di identificare quelle che a livello mondiale sono rare non perché pericolose, ma perché caratteristiche di una popolazione. Conoscenze che valgono oro.
Questi progetti “regionali” (c’è anche “Genomics Scotland”, per esempio) sono un punto di partenza, ma la diversità genetica di un Paese è assai più ampia. Molti Paesi stanno avviando progetti pilota propedeutici al sequenziamento dell’intera popolazione per definirne la variabilità genetica, l’interazione con abitudini alimentari, ambiente e insorgenza delle malattie e affiancare il dato genetico al clinico.
Fino ad oggi l’Italia ha approfittato (aspetto di cui non andare orgogliosi) degli enormi investimenti fatti da altri Paesi per i progetti di sequenziamento delle loro popolazioni. Oggi, però, le nazioni che, con risorse pubbliche, si sono spinte in queste direzioni mettono (giustamente) restrizioni e controllo alla condivisione dei loro risultati. Studiare le nostre varianti sfruttando i genomi dei progetti nazionali avviati altrove può non far emergere le caratteristiche dei genomi italiani (come lo studio in Sardegna dimostra). Ecco perché serve in Italia un progetto analogo. Non averlo significa non poter definire accordi d’interscambio delle informazioni con altri Paesi su base paritaria e rischiare di non poter utilizzare queste conoscenze nelle politiche sanitarie nazionali dell’immediato futuro.
Docente dell’Università degli Studi di Milano e senatrice a vita