Repubblica 13.9.15
Antonio Canova
L’ultima rivincita dello scultore del Bello odiato dai romantici
di Antonio Pinelli
Dagli altari alla polvere, per poi risorgere dalle proprie ceneri come una fenice: Canova è forse il più clamoroso esempio di quanto possano essere repentine quelle che Francis Haskell definiva le “metamorfosi del gusto”. Idolatrate dai contemporanei come opere di un Fidia redivivo, già pochi anni dopo la morte dell’artista le sue sculture divennero il bersaglio privilegiato della critica romantica. Da fedele interprete del precetto- cardine di Winckelmann – «imitare l’Antico per divenire inimitabili» – Canova appariva ai Romantici, non a torto, come il massimo interprete di una scultura ispirata al culto dell’Antico e del Bello Ideale, alla quale essi opponevano due nuovi ideali estetici perfettamente antitetici: l’originalità e la spontaneità. Di qui, il marchio d’infamia di “grande artista mancato” che Canova portò impresso fino a poco più di mezzo secolo fa, perché neppure la prima metà del Novecento, dominata dall’estetica crociana, ostile a qualsiasi filtro concettuale frapposto tra conoscenza intuitiva ed espressione, volle riabilitarlo. Da allora la rivalutazione di Canova come artista sommo è un fatto acquisito, grazie a storici dell’arte del calibro di Rudolf Zeitler, Hugh Honour, Giulio Carlo Argan e Fred Licht, anche se i pregiudizi romantici sono duri a morire e circola ancora la leggenda di un Canova frigidamente accademico e “grande solo nei bozzetti”. Ben venga dunque una mostra come questa che si tiene nel Centro Saint-Bénin ad Aosta, organizzata dalla Regione Valle d’Aosta con la collaborazione della Fondazione Canova e curata dall’infaticabile direttore del Museo e Gipsoteca canoviani Mario Guderzo, coadiuvato da Giancarlo Cunial ( Antonio Canova. All’origine del mito , catalogo Silvana Editoriale, fino all’11 ottobre). Sempre allo scultore è dedicata a Possagno la mostra L’arte violata
nella Grande Guerra ( fino al 28 febbraio 2016) e nella stesso Museo Gipsoteca il 26 settembre arriverà la Venere di Leeds .
Ad Aosta, intanto, una sessantina di opere – una trentina di candidi gessi, pochi ma significativi bozzetti in creta e busti in marmo, cui si affiancano dipinti a olio e deliziose tempere autografe e acqueforti che illustrano i capolavori statuari di Canova e il Tempio di Possagno – offrono l’opportunità di una rivisitazione a largo raggio dell’arte canoviana, che stimola una riconsiderazione globale del processo operativo messo a punto dall’artista. Chi esalta i suoi bozzetti e ne denigra le statue crede di compiere un atto critico, ma in realtà non fa che precludersene la strada. Non è mettendo Canova contro Canova che si può pretendere di decifrarne il messaggio artistico.
«Abbozzare con fuoco ed eseguire con flemma»: questo era un altro dei precetti di Winckelmann che Canova seguiva alla lettera. Non ha senso, infatti, isolare i vari stadi attraverso cui lo scultore veneto passava dalla fase ideativa all’opera compiuta, contrapponendo quelli iniziali al risultato conclusivo, perché ciascuna fase era sentita dall’autore come la tappa di un processo funzionale alla realizzazione del marmo finale. Schizzi preparatori e bozzetti conservano l’irruenza dell’ispirazione, ma registrano anche i pentimenti, i dubbi, e perfino una voluta sommarietà, che serve a far risaltare meglio la dialettica tra pieni e vuoti, luci e ombre. Spesso in Canova, il fulcro dell’immagine è il “buco nero” di un vuoto, e nei gruppi statuari egli studiava a fondo l’effetto plastico e drammatico derivante dall’ombra che le figure si proiettano vicendevolmente. Si passava quindi alla fase, delicatissima, del modello in creta, che doveva essere della stessa dimensione della statua da compiere e da cui si ricavava il gesso. Quella del gesso era una fase ancillare e meccanica, di cui si occupavano allievi e collaboratori, così come un compito degli aiuti era la sbozzatura del blocco in marmo, compiuta mediante un procedimento semimeccanico. Sul gesso venivano applicati i repère, chiodini di bronzo spesso tuttora visibili, che, riportati sul blocco di marmo grazie a un meccanismo di compassi e fili a piombo, fornivano ai lavoranti una traccia sufficientemente precisa per riprodurre in esso la forma del modello in gesso. A questo stadio, interveniva di nuovo Canova per giungere al compimento finale della scultura con quella che egli definiva “esecuzione sublime”: una fase meditata, “flemmatica”, che non mirava a raffreddare lo slancio creativo, ma a depurare il dato sensoriale con una distillazione formale e poetica che determinava il trapasso dal “Bello di natura” al “Bello ideale”. A Canova, infatti, premeva mantenersi in bilico tra verità e idea, carnalità e astrazione, antico e moderno, senza mai scivolare da una parte o dall’altra di quel sottile crinale. Ecco perché la sua Paolina Bonaparte, mollemente sdraiata su un sofà che sembra preso di peso dall’arredamento di Villa Borghese, iscrive il fascino seduttivo del suo corpo sinuoso nel geometrico dispositivo di un’astratta sequenza di triangoli. Morbide curve dentro un’invisibile armatura di linee rette. Pieni cui fanno eco vuoti, entrambi calibrati al millimetro. Una donna, che però è una dea. Un marmo, che è però “vera carne”.