La Stampa 13.9.15
Calvino
Una morte seguita in diretta
di Paolo Di Paolo
«Calvino sta morendo». Fa un certo effetto, a trent’anni dalla morte, ritrovare le cronache de La Stampa nei giorni del lungo addio allo scrittore. Colpito da emorragia cerebrale nel pomeriggio del 6 settembre 1985 a Castiglione della Pescaia, viene ricoverato a Siena: i giornali seguono con un’attenzione oggi forse impensabile il congedo, l’alternarsi di speranze e di peggioramenti. «Calvino si aggrava» si legge ancora su La Stampa due giorni prima della morte.
«La testa fasciata»
«Alterazione febbrile, ulteriore spasmo cerebrale»: il bollettino medico è pubblico, curioso paradosso per uno scrittore tanto schivo e insofferente alle biografie. C’è l’ansia dei lettori e del mondo della cultura internazionale, il viavai degli amici all’ospedale: Natalia Ginzburg racconterà di averlo visto, dopo l’intervento, con «la testa fasciata, le braccia nude fuori dal lenzuolo, abbronzate e forti, ed era assopito». «Mi riesce difficile pensarlo morto - aggiunge Ginzburg - Non so perché, ma la morte mi sembrava quanto mai lontana dalla sua persona».
Calvino era poco più che sessantenne, stava lavorando alle Lezioni americane, che avrebbe tenuto ad Harvard nell’autunno. Forse non immaginava con quanta ansia gli studenti lo aspettavano. Uno di loro, Jonathan Lethem, diventato poi scrittore, si trovò davanti un avviso con su scritto che erano annullate: «Vissi la sua morte come un affronto personale», ha raccontato. Le cronache di questa morte inattesa e insieme annunciata fanno cortocircuito con i testi a cui Calvino stava lavorando: una conferenza dal titolo eloquente, Cominciare e finire, e la lezione americana non scritta, Coerenza.
Il silenzio
In entrambe, il silenzio è un tema centrale. Forse, agli studenti di Harvard (e a noi), Calvino avrebbe detto che sì, certo, aveva parlato molto di scrittura, lui che molto aveva scritto, ma che l’ultima lezione non poteva che essere sul contrario di scrivere. Stare zitti ancora per un po’, pensare, evitare di aggiungere altre parole, «preferire di no». Fermi, e solidi, nel ronzio di fondo, in ascolto, convinti che un silenzio - il silenzio - non solo è più eloquente, perfino più utile di molti discorsi. È più «coerente», e più onesto. Quanto a Palomar, il suo romanzo ultimo, finisce così: «Se il tempo deve finire, lo si può descrivere, istante per istante, pensa Palomar, e ogni istante, a descriverlo, si dilata tanto che non se ne vede più la fine. Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita e finché non li avrà descritti tutti non penserà più d’esser morto. In quel momento muore».
Lo scrittore che più progetta, combina, esplora le possibilità della scrittura, i generi e le forme, sembra infine ossessionato da ciò che nega le parole, le interrompe. Dal silenzio, dalla pagina che finalmente resta bianca, come la distesa di neve alla fine di Marcovaldo. Ma ci parla del «senso di una fine» anche la chiusa del Barone rampante, con quell’ultimo «grappolo insensato di parole idee sogni». «Per me invece è la fine che conta» dice un lettore in Se una notte d’inverno un viaggiatore, «ma la fine vera, ultima, nascosta nel buio, il punto d’arrivo a cui il libro vuole portarti». Un altro confessa che il suo sguardo scava tra le parole «per cercare di scorgere cosa si profila in lontananza, negli spazi che si estendono al di là della parola ’fine’».
Il non dire
È là che va cercato e riletto Calvino, in questo suo eterno corpo a corpo col non dire, con il non dicibile e non detto, con la parola assediata dal suo contrario. All’indomani della scomparsa, su La Stampa, Nico Orengo ricordava come Calvino - «per ragionare, per riflettere un attimo di più» - fosse capace di inventarsi una finta balbuzie. Forse proprio per questo aveva scelto lo scrivano di Melville come protagonista dell’ultima lezione. Bartleby, con il suo «avrei preferenza di no», diventa inespugnabile, invisibile, muto. Rinuncia a parlare, e soprattutto a scrivere. Una forma di sublime apatia, contro un mondo che chiede troppo, contro la vitalità dei tempi, «rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante»?
È un ripiegamento difensivo o una più alta forma di presenza - sospesa, senza arroganza, senza illusioni? Forse ad Harvard avrebbe spiegato che scrivere ha molto a che fare col non scrivere. Forse avrebbe spiegato che dire no, o non dire, è il gesto di coerenza più grande. Forse avrebbe difeso anche la scelta di farsi da parte, di rinunciare quasi a esserci: scomparire, farsi tentare dalla rinuncia. Forse avrebbe detto che essere sé stessi fino in fondo può somigliare anche a un gesto di mitezza estrema. A un silenzio.