mercoledì 9 settembre 2015

La Stampa 9.9.15
L’eterna sfida tra il vecchio e il nuovo che il Pd rischia di pagare caro
Come per le altre riforme, non è il merito ad essere in discussione
di Federico Geremicca


Tra veti incrociati, minacce di crisi di governo e raffiche di timidi pre-ultimatum, la battaglia interna al Partito democratico è ripresa con toni e movenze, in verità, ormai un po’ stucchevoli. Oggetto del contendere - in queste ore come da mesi a questa parte - è la fine del bicameralismo perfetto, un quasi unicum tutto italiano del quale si chiede da anni l’abolizione: eppure, ora che la fine di questa «anomalia» sembra vicina come mai, in casa Pd si moltiplicano i dubbi, i distinguo e le aperte resistenze.
Le posizioni in campo sono ormai del tutto definite, così come - di conseguenza - i temi di maggior dissenso. A questo punto, volendo stringere, il nodo del conflitto è riducibile alla modalità di elezione dei futuri senatori: la minoranza li vorrebbe scelti direttamente dai cittadini, la maggioranza - invece - propone che siano designati dai diversi consigli regionali. Fossero possibili rapide consultazioni di iscritti ed elettori, sarebbe interessante conoscere l’opinione del «popolo democratico»: anche se è lecito dubitare della fine della belligeranza interna perfino dopo un simile pronunciamento...
Il perché è facile da intuire ed è - da oltre un anno ormai - sotto gli occhi di tutti: così come per il jobs act, la riforma della scuola, l’Italicum e praticamente ogni provvedimento varato dal governo, anche la riforma del Senato è stata trasformata in terreno di sfida tra il «vecchio» e il «nuovo» Pd. Anche stavolta, insomma, in discussione è la legittimità di obiettivi e stili di governo (quelli di Renzi, intendiamo) che la minoranza interna al partito rifiuta in toto. «Si sta portando il nostro popolo - ha ammonito qualche giorno fa Bersani - dove il nostro popolo non vuole andare». E ieri ha aggiunto: «Non si può chiamare alla disciplina di partito di fronte alla Costituzione».
Se è questo ciò che è in discussione, nessuna mediazione nel merito (cercata ancora ieri tra Renzi e il gruppo Pd al Senato) dovrebbe esser possibile, appunto perché non è il merito ad essere in questione. E se è questa la distanza che separa il «vecchio» Pd da quello «nuovo», le conseguenze da trarne - per chi osteggia la leadership renziana - non sono né tante né difficili da ipotizzare.
Infatti, immaginare che la guerriglia interna possa andare avanti - con questi toni e questa asprezza - fino al Congresso (2017) è cosa ardua, considerando gli effetti che produrrebbe sull’azione del governo e sulla stessa tenuta del Partito democratico. A volte, però, si ha la sensazione che sia proprio questa la via scelta da buona parte della minoranza Pd: una sorta di muoia Sansone con tutti i filistei... Non è qui in questione, naturalmente, la legittimità della battaglia politica ingaggiata quanto - piuttosto - l’efficacia e la coerenza di scelte e comportamenti anche individuali.
C’è chi, anche molto di recente, ha lasciato il Pd per disaccordi profondi e ritenuti non sanabili; Sergio Cofferati (tra i fondatori del partito) per una sorta di «indifferenza etica» nei rapporti col centrodestra; Pippo Civati («giovane promessa» proprio con Renzi) per una deriva definita confusa e autoritaria; Stefano Fassina (viceministro con Letta) per una politica economica considerata tout court di destra. Scelte difficili, dolorose: ma scelte, alla fine.
Non sempre si può dire lo stesso per esponenti della minoranza firmatari di documenti, emendamenti e appelli in dissenso dalla linea decisa nei gruppi parlamentari o negli organismi dirigenti del partito. Non solo nessuno trae poi le dovute conseguenze da critiche tanto aspre da sembrare rivolte non al segretario del proprio partito ma al leader di una formazione avversa: non è raro, anzi, che dopo aver montato la polemica con scritti e dichiarazioni, al momento del voto si assentino o si abbiano ripensamenti.
Si tratta di comportamenti che alla fine risultano non solo poco producenti rispetto agli obiettivi prefissati, ma addirittura dannosi per la «ditta», considerata l’immagine del Pd che proiettano all’esterno. Più saggio forse sarebbe lavorare seriamente e meno rumorosamente ad una alternativa all’attuale leadership, che andrà combattuta - è bene non dimenticarlo - in primarie che per la minoranza non si profilano semplicissime. Per ora non va così, e diciamo la verità: non c’è molto di cui rallegrarsi...