martedì 8 settembre 2015

il manifesto 8.9.15
In tre colpi di pistola, la Storia di Israele
Concorso. Il nuovo film di Amos Gitai mette in campo, tra archivio e narrazione, tutte le parti della società israeliana ferocemente ostili alla pace.
di Cristina Piccino


VENEZIA «Sarebbe stata più stabile oggi la situazione di Israele se Rabin non fosse stato ucciso?». A porre la domanda a Simon Peres, che di Rabin è stato compagno in un cammino politico epocale nel processo di pace tra israeliani e palestinesi, e nella scommessa del cambiamento che poteva comportare in termini di prospettiva storica, politica, sociale nella vita del Paese, è Yael Abecassis, protagonista in molti film di Amos Gitai. E questo dialogo diretto su fondo scuro che apre il nuovo film del regista israeliano – in concorso — dichiara da subito il suo dispositivo. Siamo nella «finzione» come garanzia massima e efficace di realtà, tutto questo è accaduto davvero ma ciò che vedremo non ne è la «semplice» ricostruzione. Rabin, The Last Day è un’ indagine basata sui fatti – Gitai che ha raccontato di avere lavorato due anni alle ricerche utilizza molti materiali di archivio e delle news — dove i buchi della realtà, i silenzi, gli omissis vengono riempiti narrativamente. E’ possibile credere che un servizio segreto potente come il Mossad non sapesse quanto stava accadendo? Che la sicurezza più capillare al mondo abbia avuto tante e tali distrazioni da permettere a un tizio qualunque armato, un ragazzo cresciuto con la testa imbottita di preghiere e propaganda, mitra e scritture, di avvicinarsi al Primo Ministro e sparargli tre colpi mortali?                                                                                                                        
Specie poi in un clima di tensione e di scontro politico aspro come quello seguito agli accordi di Oslo, mentre Rabin era attaccato dalla destra estrema, religiosa e non, dipinto come un neonazista che consegnava il Paese al mostruoso nemico? C’è un reporter che filma da un tetto e che è sgradito al poliziotto, gli dice di allontanarsi e di riprendere solo Rabin mentre sale in automobile. «L’atmosfera era strana» ricorda l’uomo nella sua testimonianza, l’esperienza di Zapruder ai tempi dell’omicidio di Kennedy ci ha insegnato quanto le immagini possano essere pericolose e come sia facile incolpare un fuori di testa qualsiasi pure se il ragazzo in questione appartiene a un’ organizzazione religiosa estremista, quelle protette seppure non palesemente dalla destra del Likud che tornerà trionfalmente al potere con Netanyahu. Ma non è solo un’inchiesta sulla morte di Rabin questo film che per Gitai sembra un po’ quello che JFK era per Stone: l’omicidio di Rabin diviene infatti la lente con cui attraversare la politica e la società israeliane, ciò che sostiene anni e anni di confitto e di occupazione. E stabilisce una cesura, almeno per il regista e per quella parte di Israele che crede nel fondamento democratico, nella promessa fatta a sé stessa alle sue origini di non uccidere mai i propri capi di stato. Gitai in Israele è tornato allora, convinto dell’importanza di quella scommessa, di una soluzione seppure spinosa e mai prevedibile del conflitto di cui gli accordi di Oslo firmati tra Arafat e Rabin nel 1993 sembravano un primo momento. Diaspora contro sionismo, democrazia contro oscurantismo, Storia contro mitologia del sacro, sono i cardini di un scontro che esige una radicale svolta. Pace o delitto.
Il punto di non ritorno di quel 4 novembre del 1995. Il movimento narrativo procede per confronti e giustapposizioni: «reale» e «messinscena» slittano uno nell’altro (a volte in eccesso). Le tetimonianze dopo l’omicidio alla commissione Shamgar, istituita per fare luce sulle eventuali anomalie nella sicurezza: l’ambiguo autista, l’avvocato del governo che decide di insabbiare le testimonianze contro i rabbini che avrebbero lanciato una maledizione di morte a Rabin. Il capo della sicurezza contattato in ritardo e con un piano lacunoso, il comandante della polizia. Gli interrogatori all’assassino, la sua arroganza, la sua determinazione in nome di dio. E quasi in controcampo le tensioni popolari dei mesi precedenti e i politici che le strumentalizzano con lucida determinazione. Sionismo e purezza del Paese. I religiosi e i coloni a cui il Likud ha permesso di moltiplicarsi e che violando ogni trattato occupano anche le terre non di stato, distruggono gli ulivi, minacciano i palestinesi.
Se The Arena of Murder era un viaggio attraverso Israele alla ricerca di quegli elementi di conflitto e contraddizione che si opponevano al cambiamento tentato dalla politica di Rabin, seguendo l’urgenza di scuotersi da quel trauma — tre settimane dopo l’omicidio – qui quegli stessi elementi vengono ricostruiti nella distanza dei 20 anni, e al tempo stesso si presentano come circostanze immutabili della società israeliana. Di un paese in cui la realtà si fonda sul mito, lo statuto della vittima determina la propria rappresentazione di sé, la religione è geografia e politica. Gli accordi di Oslo sono contro la Torah grida il rabbino prima di lanciare la condanna a morte a Rabin. L’immagine di quest’ultimo che cerca di prendere la parola contro i violenti attacchi della destra del Likud alla Knesset è dolorosa e premonitrice.Non è questione dunque di complotti anche se Peres nelle prime immagini parla apertamenti di «sedizioni» in quel momento.
E se mai c’è stato è grazie a alleanze e connivenze, al continuo alimentare a violenza come unica forma di dissenso, alla compattezza di un sistema che non poteva tollerare quell’anomalia, un cambiamento che toccava gli interessi più sensibili del Paese. Ogni film di Gitai interroga costantemente le ragioni della Storia, ma stavolta la necessità si fa più forte perché ciascuno dei protagonisti di questa specifica vicenda esprime una totalità e insieme un frammento del cinema di Gitai, dei suoi movimenti, l’utopia di un luogo di pace dei suoi genitori fuggiti dal nazismo, che il regista affida all’uomo che interroga l’assassino. Della possibilità di uscire dalla declinazione più distorta del sionismo e di far respirare un mondo in conflitto, di violenza radicata e dall’apparenza insormontabile. Un film doloroso questo e intimo nonostante la geometria investigativa del suo svolgersi, che mette in discussione tutto senza offrire risposte. Non c’è una soluzione, ma solo una possibilità di consapevolezza. E le immagini sono parte fondante di questa resistenza.