La Stampa 8.9.15
“Il paradosso degli italiani: a Londra come lavapiatti ma qui non lo farebbero mai”
De Rita: all’estero sognano un locale tutto loro
intervista di Gia. Gal.
I ragazzi italiani non vogliono più fare i camerieri né lavorare nelle cucine dei ristoranti. Eppure tanti dei nostri figli e nipoti vanno a fare gli stessi mestieri a Londra, Parigi, Madrid, Sydney», osserva il sociologo Giuseppe De Rita, fondatore del Censis. «E’ un segno storico: un intero sistema entra in crisi dimensionale».
Come spiega il paradosso?
«In realtà non c’è contraddizione. I dati della ristorazione tracciano una chiara tendenza economica e sociale Questo settore in Italia è mediamente un’attività a bassissimo investimento d’ingresso e di scarsa qualità. Sono quasi tutti piccoli imprenditori che puntano alla clientela “low cost”. Vogliono solo tagliare i costi del personale, quindi assumono prevalentemente immigrati. Non c’è altro obiettivo».
Lavori rifiutati dagli italiani?
«Non è tanto una questione di scelte personali. E’ piuttosto un problema di dimensioni troppo ristrette delle aziende che in Italia operano nella ristorazione. Incide anche la presenza di una quota di giovani italiani schizzinosi che, se possono evitarlo, preferiscono uscire con la fidanzata o andare a ballare con gli amici invece di lavorare la notte e nei weekend in locali surriscaldati, per una paga mediocre e col fiato sempre sul collo dei proprietari».
Però poi emigrano a fare gli stessi mestieri. Dove è il vantaggio?
«Nella prospettiva. L’italiano che va in Spagna o in Francia magari all’inizio accetta di fare lo sguattero o di pelare patate, però ambisce a diventare uno chef stellato o ad aprire un suo ristorante. Se resta in Italia e viene assunto in una rosticceria o in una trattoria continuerà negli anni a svolgere lo stesso lavoro in imprese ad inadeguata capitalizzazione. Da noi il ristoratore, a fronte di modesti investimenti, si circonda di addetti a bassa retribuzione, spesso inquadrati contrattualmente come addetti non qualificati ma che in realtà cucinano la pasta alla carbonara e la bagna cauda o stanno a diretto contatto con la clientela. Mia nipote va a fare la pasticciera nei Paesi Baschi per farsi strada a livello internazionale, in contesti aziendali ad alta intensità di capitali».
Cosa cambia se resta in Italia?
«Per uno stipendio da fame avrebbe sempre gli abiti e le mani che mandano cattivo odore, ma soprattutto dovrebbe rassegnarsi a non crescere professionalmente. In Italia conta tagliare il più possibile i costi di esercizio. Non è solo questione di paga differente, ma di ambizione che il mercato italiano non consente di alimentare».
E il «made in Italy» in cucina?
«Svenduto a prezzi stracciati. Roma è l’esempio più evidente di una dinamica che coinvolge la ristorazione italiana. Per il Giubileo sono in arrivo nella capitale 33 milioni di pellegrini, però il modello dilagante rimane quello della trattoria al risparmio in cui un pizzaiolo egiziano, un cuoco pakistano e 2 cameriere moldave mandano avanti il ristorante di cui è proprietaria la famiglia italiana. Non si investe per migliorare, la qualità è considerata un lusso ».
Perché assumono immigrati?
«Vengono dalla miseria nera. Qui lavorano sodo e non si lamentano. Per loro essere in Italia è giù un colossale avanzamento sociale. Essere assunti in trattoria per gli immigrati è traguardo, per i nostri figli e nipoti è una sconfitta, un ridimensionamento delle aspettative. La colpa è degli investimenti inadeguati. Se manca la visione, piccolo non è bello. La prima volta che misi piede a Prato le aziende tessili erano microscopiche: le famiglie compravano un telaio e lo piazzavano nel sottoscala per lavorarci a turno. Poi però sono diventate imprese mondiali. La rosticceria invece resterà sempre com’è. Finirci a lavorare significa non avere possibilità di progredire. Cuochi e camerieri italiani storcono il naso, si lamentano, pretendono prospettive che chi arriva da Senegal o Bangladesh non sogna neppure».