martedì 8 settembre 2015

La Stampa 8.9.15
Il premio Nobel Orhan Pamuk
“Da noi due milioni di profughi. Voi vi lamentavate per duemila”
Lo scrittore turco Pamuk: “Giusto pubblicare la foto di Aylan, quello scatto ha smosso le coscienze degli europei più delle parole di qualsiasi intellettuale”
intervista di Fulvia Caprara


Il premio Nobel Orhan Pamuk parla con voce forte e chiara, scandendo bene le parole, disposto perfino a ripetere se capisce che qualcosa dei suoi discorsi non è stato colto. Al Lido è ospite d’onore perchè ieri è stato presentato (alle «Giornate degli autori») «Innocence of memories», il documentario di Grant Gee dedicato al suo «Museo dell’innocenza», ma l’attualità di questi giorni è così bruciante da scavalcare i discorsi artistici e prendere subito il sopravvento.
Istanbul, da sempre, è stata luogo di incontro di popoli e culture diverse, che cosa pensa del problema dell’immigrazione e dell’atteggiamento tenuto dai vari Paesi nei confronti del problema?
«Sì, Istanbul e la Turchia sono crocevia di grossi movimenti demografici, non solo dall’Asia verso l’Europa, ma anche dalla Russia verso il Sud e dai Balcani verso la Turchia. È normale che persone povere e in difficoltà tentino di raggiungere in ogni modo l’Europa, e oggi la gente cerca di arrivare attraverso il nostro Paese... ma noi abbiamo sempre dato via libera a queste persone, arrivando ad accogliere 2 milioni di immigrati, mentre in Europa non ce n’erano più di duemila e ci si continuava a lamentare. Perciò adesso sono molto contento che la Germania abbia deciso finalmente di aprire le porte e far entrare queste persone».
Negli ultimi giorni la fotografia del bambino Aylan ha colpito al cuore le platee del mondo e, ovunque, si è molto discusso sulla scelta di pubblicarla. Qual è il suo parere?
«La mia idea è che dobbiamo smetterla di sopravvalutare il ruolo degli intellettuali».
In che senso?
«Nel senso che quell’immagine è mille volte più importante e decisiva, nel processo di cambiamento dei cuori e delle menti delle persone sul tema immigrazione, rispetto a qualunque dichiarazione o presa di posizione di intellettuali di qualunque parte del mondo. È uno scatto che ha smosso le coscienze degli europei, che li ha costretti a rivedere le loro posizioni. Anche in Turchia si è discusso molto sull’opportunità di rendere pubblica quella foto, io sono completamente d’accordo con chi lo ha fatto. Il dolore o il disagio avvertito dalla classe media europea davanti a quella foto non è lontanamente paragonabile a quello che provano le famiglie degli immigrati costretti a fuggire dai loro Paesi. Perciò, in ogni caso, era giusto mostrarla».
Quindi, nel panorama attuale, gli intellettuali non hanno più alcuna funzione?
«No, possiamo ancora fare qualcosa, criticare quando è necessario farlo, ma l’impatto delle nostre azioni, delle nostre proteste, nel mondo dominato dalle immagini è molto minore rispetto al passato».
Istanbul è al centro della sua vita e della sua ispirazione artistica. Che rapporto ha, oggi, con la sua città modificata dal tempo e dagli eventi?
«Sì, Istanbul è la mia città, ma non ho con lei un rapporto zuccheroso o idealizzato e non voglio averne una visione troppo romantica. Aver avuto la possibilità di seguirne lo sviluppo, da dentro, è stato importante, la mia città mi piace, ma io preferisco osservarla da un punto di vista analitico. Istanbul è la città che ha formato il mio carattere, è come la mia famiglia, il mio corpo, la accetto e cerco di guardare il mondo attraverso di essa».
Che cosa è «Innocence of memories»?
«È un film che ha tre caratteristiche diverse. È un documentario sul museo, un film sulla vita e sul lavoro a Istanbul, un trattato poetico sulla città».
Che cosa rappresenta per lei il «Museo dell’Innocenza», il luogo dove sono raccolti gli oggetti e i ricordi del suo romanzo?
«Ricordare ci rende intelligenti e ci fa sopravvivere. Noi siamo memoria, e non esiste possibilità di essere felici senza ricordi».